mercoledì 24 aprile 2013

Per chi tifavi a Berlino est?



“Si puo' divorziare, cambiare lavoro, la casa, il luogo in cui si vive, ma non si può cambiare l'amore verso la propria squadra di calcio, che da piccolo ti entra nella vita e ne diventa parte integrante e fondamentale.”
Questo lo scriveva Nick Hornby e, a partire dagli anni ’80, lo sottoscrivevano diversi miei concittadini che, a prezzo di anelli restituiti e contratti stracciati, si presentavano al Club Mediterranée "più a sud di Tunisi, ma in Sicilia", per vestire la maglietta con la scritta STAFF. Era un orda di autoctoni in caccia sotto le mentite spoglie di bagnini, operai od istruttori che, con ossessione brancatiana e concretezza landobuzzanchiana, circondavano fino alla resa il cuore di turiste germaniche e cisalpine. Tanto che ancora oggi, in tempi di mobilità umana in prevalenza carpatica e mediterranea, nella mia provincia, la comunità femminile di nazionalità tedesca rimane una delle più numerose.

Il preambolo per confessare che anche io ho perso la testa per una tedesca.
Mia moglie (ove mai leggesse) può stare tranquilla. Nick Hornby un po’ meno. La tedesca in questione è la squadra di calcio dell’Union Berlino, che a me ha rubato il cuore e a voi (ove mai leggeste) una decina di minuti. L’Union Berlino è oggi la seconda squadra della capitale, dietro la più famosa Herta, ma fino al 1989, nella Berlino dell’ortodossia socialista, ha vissuto alle spalle della Dinamo. Mentre scrivo, la squadra milita in Zweite Bundesliga, la serie B tedesca, dove occupa una riparata posizione di metà classifica. Il culto dell’Union Berlino, club nato nel 1906, si rafforza sotterraneamente nel corso dei decenni e si caratterizza per il modo anticonvenzionale di incardinare la passione calcistica sul telaio dell’identità locale, dell’appartenenza, dei rituali e della tradizione, costruendoli e riassemblandoli in modo aperto, libero e poco gerarchizzato. In questa originale grammatica del linguaggio del tifo, che da elemento satellitare e coreografico diviene immagine sostanziale del club e suo imprescindibile capitale, la vittoria è solo un gradito optional, contando molto di più i sentimenti e le relazioni. A partire da quelle stabilite con lo stadio, una componente unica del fascino dell’Union. I berlinesi, infatti, giocano in un impianto dal nome più bello del mondo: An der Alten Försterei ovvero  "La vecchia casa dei guardaboschi". Sembra un titolo rubato a una poesia di Montale, ma semmai è vero il contrario perché l’Alten Försterei è la tana dell’Union fin dal 1920. Costruito  in mezzo alla foresta di Köpenick, in quello che fu un punto di incontro per i critici del regime socialista, in ogni tempo varcare la soglia di quel posto di guardia ha significato entrare in un piccolo club di fedeltà, appartenenza e storie debitamente cazzute, anche se mai benedette dalla vittoria (la vogliamo chiamare vittoria l’unica coppa di lega della Germania dell’est vinta dai nostri  nel 1963? No, chiamiamola una variazione di gamma nel dominante grigio DDR della Germania divisa).

Nei primi anni della sua storia l’Union Berlino si afferma come squadra del quartiere operaio con un tifo di sinistra temprato nelle officine siderurgiche, che valse al club il soprannome di Eisern (ferrei) e che portò i calciatori ad indossare per qualche tempo magliette blu (i colori sociali sono da sempre il bianco e il rosso), in onore del colore della divisa dei tanti operai che tifavano per loro. Nella Berlino del muro, invece, l’Union ha rappresentato l’alternativa all’omologazione socialista. A supportarla allo stadio andavano anche quelli che non si interessavano al calcio, se non altro per aspettare il momento delle punizioni, quando di fronte alla barriera schierata dagli avversari, poteva partire l'invito al centravanti e alla storia a calciare forte: "Die Mauer muss weg" (il muro deve cadere). In quegli anni l’Union ingaggiò una lotta sportiva e politica contro la Dinamo Berlino, la squadra della STASI, le cui cupe strategie orwelliane si applicavano anche ai campionati nazionali dove la Dinamo sottraeva i maggiori talenti ai rivali e arrivava a vincere in tutti i modi possibili anche 10 campionati di fila. Ad ogni derby alla Casa dei guardaboschi o ad ogni incontro importante della Dinamo, i tifosi dell’Union non mancavano, con perfetto stile Eisern, di inneggiare ai berlinesi dell’ovest dell’Herta o di cantare cori allusivi nei confronti delle autorità politiche. Quasi sempre sconfitti sul campo, cospargevano di fiele gli orli di ogni coppa vinta dai rivali, mostravano loro la lingua nelle foto ricordo per gli almanacchi. E non si deve pensare solo ad un antagonismo casereccio e rozzo, fatto di salsiccia, birre e qualche arguzia, ma anche ad una grande energia contrapposta all’apatia di un regime che aveva eretto la paranoia e l’ossessione del controllo come sistema di vita. Nacquero così, all’interno del tifo Union, delle frange punk che rappresentavano una vigorosa forma di resistenza all’impostazione normativa della Germania orientale. Sono geni sopravvissuti nel DNA della squadra, basti pensare che l’inno degli Eisern è cantato dall’icona punk tedesca Nina Hagen, con tanto di beffeggiante citazione musicale dell’inno sovietico (immaginate come debba sentirsi chi, da anni, ad altre latitudini, in altre capitali, si arrangia con Venditti e gli Oliver Onions).
Poi, in un giorno di novembre del 1989, la barriera a difesa del comunismo si sbriciolò senza bisogno di tiri alla Roberto Carlos e divenne un puzzle per collezionisti di souvenir. Il mercato libero e la rivoluzione pacifica della Germania unita investirono con incontrollabile velocità anche i campionati di calcio. In pochi anni la Dinamo Berlino, privata dei suoi appoggi, scomparve nelle serie minori, mentre allo stadio dell’Union viene conservato ancora il tabellone ligneo che ricorda il punteggio dell’ultimo incontro tra i 2 club, con gli ex pupilli della STASI messi sotto torchio per 8 a 0 dagli Eisern. Nella Berlino unita, la squadra ha conservato una parte attiva nell’immensa vivacità culturale della città. I risultati sul campo non sono mancati, come nel 2001 quando l'Union, pur giocando in Regionalliga (allora corrispondente alla Serie C1), giunse in finale di Coppa di Germania, perdendola poi 2-0 contro lo Schalke e disputando l'anno successivo due turni di Coppa Uefa. La fuoriuscita degli Eisern dalle serie minori è stata, però, rallentata da periodiche crisi economiche a cui i fan hanno risposto anche donando il sangue per reperire fondi. Il problema principale era l'agibilità del vecchio stadio, ormai inadeguato, ma che rappresentava pur sempre un pezzo di storia calcistica nazionale. Nel 2007, dopo mesi di promesse non mantenute dal comune di Berlino, i tifosi decisero di  restaurare in autonomia l'An der Alten Försterei. Nei fine settimana o durante le ferie si presentarono in 900 tra muratori, carpentieri ed elettricisti. Moltissimi altri si impegnarono a lasciare offerte in denaro o a provvedere al ristoro dei tifosi lavoratori. Lo stadio messo a nuovo dai fan a costo zero venne inaugurato con un derby con l’Herta e tutti i lavoratori, ricordati con una stele per il loro impegno, si fecero un punto d’onore nel pagare il biglietto d’ingresso. Dopo pochi anni l’Union venne promosso in seconda serie, ma per disputare il campionato si rendeva necessario un'ulteriore messa a norma dell'impianto. E mentre in Italia lo slogan destinato a salvare il mondo del pallone recita: “stadio di proprietà dei club”, a Berlino quelli dell’Union si sono inventati lo stadio di proprietà dei tifosi. In altre parole la società ha messo in vendita le quote di possesso dello stadio secondo un principio democratico che impedisce speculazioni ed accumuli nelle mani dei singoli. Tra le nuove funzionalità dell'impianto ci sono una caffetteria, dove il giovedì è possibile incontrare i giocatori, una nuova tribuna e spazi dedicati ai tifosi per il fan club, i bar e il merchandising. Il numero di posti a sedere, tuttavia, rimane il minimo indispensabile per l’omologazione, perché il tifo, che continua ad essere disorganizzato, senza cori specifici e capi ultras, lo si pratica rigorosamente in piedi sulle tribune. L’offerta delle azioni ai tifosi è stata pubblicizzata con cartelloni per tutta la città che ritraevano i diavoli del mondo del calcio (tra cui Blatter e l’immancabile Berlusconi), e con uno slogan d’effetto: “L’FC Union vende la sua anima. Ai tifosi”.

E la tesi che tifare Union sia un rito che chiunque può officiare è dimostrata da una recente iniziativa spontanea che regala un supplemento d’anima all'intera città: nel 2002, dopo una sconfitta all’ultima giornata di campionato prima della pausa invernale, un gruppo di 89 tifosi pensò di incontrarsi clandestinamente allo stadio per augurarsi buon Natale con una birra e delle canzoni. Da quella data è diventata una tradizione autogestita dai berlinesi, anche tifosi di altre squadre, incontrarsi alla vigilia di Natale all’ An Der Alten Försterei per cantare tutti insieme canti natalizi. Lo scorso 24 dicembre si contavano più di 22.000 persone munite di candele e libretto dei canti e la manifestazione è durata 90 minuti.
Nel coro di no al calcio moderno che riempie le curve di buona parte di Europa, la proprietà dell’Union Berlino ha trovato una soluzione di grande intelligenza, conciliante tra le esigenze economico-finanziarie e quelle di intendere il calcio come passione dei propri tifosi. Esattamente il contrario dell’antagonismo neanderthaliano della cultura ultras dei nostri stadi, che reagendo ad un'epoca se ne distacca con rabbie nevrotiche ed esclusive. Non so se questa soluzione porterà l'Union Berlino a qualche vittoria, ma l'amichevole collaborazione fra tutela della tradizione, identità del club e stato di salute della casse societarie è la dimostrazione di qualcosa che a Berlino conoscono molto bene e sulla propria pelle: i muri possono cadere.

Sono grato a Stefano, impagabile amico romano berlinese. In attesa di trovare un accordo anche su quale sia la seconda squadra della capitale italiana.