sabato 19 gennaio 2013

Clem Sacco: il Tarzan del rock and roll


L’anno in cui Belzebù arrivò a Milano fu un vero e proprio scuotimento. Si presentò in blue jeans e vistosa giacca a quadri, masticando parole americane. Aveva in testa idee di ribellione e un vaporoso ciuffo. Prometteva giorni felici e ballava un ballo nuovo, tutto energia e un pizzico di sesso, che si chiamava rock and roll. Era il 1957 e si stabilì al Teatro Smeraldo, dove riceveva in scatenati pomeriggi la gioventù dell’epoca. Fu subito scomunicato da ogni persona di buon senso: il questore, i celerini, l’Arcivescovo di Milano e ogni onesto genitore preoccupato per la sanità mentale dei propri figli.
Ci fu poco da fare. Belzebù col suo nuovo ballo offriva divertimento e coca cola, coraggio e caviglie in movimento, incontro e libertà di espressione: una piccola rivoluzione permanente in quattro quarti. In cambio non chiedeva mica l’anima (roba di un altro secolo, di altre patrie), ma piccole cose superflue: una briciola di identità, un cappello di feltro, schegge di tradizione, particelle di ordine costituito, la porta sbattuta dietro le spalle adolescenti in qualche casa. Attirati dall’offerta di un’evasione dal mondo contadino, artigiano e della fabbrica, per l'approdo ad una vita a stelle e strisce, arrivarono i più giovani, alcuni dei quali destinati a diventare gli astri di un firmamento sincopato e paesano. Quei giovani si chiamavano: Giorgio Gaber, Ghigo, Enzo Jannaci, Adriano Celentano, Guidone, Baby Gate (che poi sarebbe diventata Mina), Clem Sacco. E quella di Clemente Sacco, nato in Egitto da genitori italiani e trasferitosi a Milano per studiare canto lirico, è una storia che va raccontata. Se il mito americano della libertà di espressione andava prendendosi in musica quel magistero che aveva perduto in letteratura, a Clem Sacco importava poco. Dell’America lui conosceva i film di Ercole e Maciste e, con il suo fisico da culturista, si manteneva agli studi di canto lirico insegnando body building e scaricando frutta e verdura al mercato generale. Ad un concorso per baritono alla stagione lirica, bandito alla fine degli anni '50, arrivò secondo, decidendo che era arrivato il momento di darsi alla musica leggera, anzi, meglio, al nascente rock and roll. Debuttò nel 1961 con il singolo “Agnese Rock” e trovò una casa discografica, la Durium, disposta a produrlo. I suoi primi 45 giri ne rivelano il lato genuinamente umoristico e folle: “Enea con il neo”, “Ti è passato il nervoso” “Baba al mama” sono alcuni dei titoli di quegli anni. Sempre agli inizi dei ’60 una presenza scenica comunicativa e un’energia leonina ne fanno il protagonista più interessante di un’altra esperienza pioneristica italiana: i video box. In altre parole dei juke box dotati di schermo che proiettavano gli antenati degli odierni video clip, con alcune embrionali trovate di regia e di montaggio. Scovati dal giornalista Michele Bovi, questi filmati con Clem Sacco rivelano un umorismo semplice semplice, ma per i tempi dirompente. In uno si vede un cartello annunciare un serissimo concerto d’archi e un direttore d’orchestra, ripreso di spalle, mentre sta per dare il via alla musica. Ma quando il direttore si gira ecco rivelare Clem Sacco con la sua band che suonano un pezzo rock  intitolato “Oh mama voglio un uovo alla coque”. Non mancano passi di danza scimmieschi che fanno il verso a Celentano che fa il verso a Jerry Lewis e la comparsa di una graziosa infermiera (un cartello ci avvisa che la scena è ambientata in un manicomio) che balla mostrando persino il polpaccio. Se è evidente l'intenzione di marcare la distanza dalla musica seriosa, meno visibile è che Sacco, con il suo uovo alla coque, sta mostrando l'alterità della propria proposta anche nei confronti di un'altra serietà, quella del rock come musica nuova, giovane, ribelle e maledetta. Possibile che già qualcuno potesse prenderla in giro? Possibile che la musica del diavolo fosse già esorcizzata con un uovo alla coque?

L’esperienza dei video box non prende piede, ma le canzoni di Sacco circolano tra i giovani con grande divertimento. Il nostro artista sembra aver ritirato il suo regolare biglietto di invito alla festa da ballo con il successo, ma si accorgerà presto di essersi presentato con troppo anticipo e, a dirla tutta, con l’abbigliamento non proprio adeguato. Il fattaccio accade al Teatro Smeraldo nel 1961, alla presenza delle telecamere RAI. Sacco si esibisce in un ballo scatenato presentandosi al pubblico in mutande leopardate. Un Tarzan meneghino che affida alla giungla dei codini un folle richiamo per i coetanei: “Oh mamma voglio l’uovo alla coque, voglio fare il caschè scivolando dal bidet, sono pazzo come il rock!”
Il successo della performance è travolgente. Dell’esibizione in mutande leopardate parlano i giornali e la TV con i toni che è facile immaginare, il pubblico giovane è entusiasta, i moralisti si scandalizzano come da copione. Quando il giorno successivo viene convocato negli uffici della sua casa discografica, Sacco si aspetta complimenti e strette di mano, magari un contratto coi fiocchi. Il patron, invece, è furibondo per lo scandalo: “Lei ci ha trascinato nella vergogna con quella schifezza di spettacolo”. Clem, che ovviamente era già stato censurato a priori dalla RAI e dalle radio, si ritrova senza casa discografica e marchiato da un embargo che da quel giorno diverrà sempre più ostinato. In soccorso arriva, però, Adriano Celentano che in quello stesso anno parte per il servizio militare. Sacco entra nel Clan come voce solista dei Ribelli  e diviene il sostituto del Molleggiato alle prese con la difesa della patria. Per vari mesi I Ribelli girano l’Italia riproponendo le canzoni di Celentano cantate da Sacco, più brani originali dello stesso Clem che mandano il pubblico in visibilio. Sacco, in effetti, più che un surrogato, è un Celentano al superlativo, uno che ha sferrato del tutto i giri alla sua corda pazza, dandole libertà di correre in lungo e in largo nel campo della stravaganza e dello spasso. Al ritorno dalla naja di Celentano, Sacco fonda un proprio gruppo, I Califfi e si lancia in nuove canzoni dove continua a frullare il suo nonsense non ideologico e rispondente all'unica parola d'ordine del divertimento. Nascono canzoni come “Il deficiente”, la proto punk “Spacca, rompi, spingi” o la famigerata “Vampira cha cha cha” meglio conosciuta come “Baciami la vena varicosa” con un testo (“Baciami la vena varicosa, succhiami il dente del giudizio, strappami il pelo del neo, vampira vampira vampira cha cha”) di ineguagliabile ebbrezza anatomica almeno fino all’avvento, un quindicennio dopo, del “Silvano” di Jannacci, Cochi e Renato.
Il successo, dopo i discografici, le radio, le TV, gli volta le spalle. Si preferiscono lacrime sul viso e cuori matti, baci anche in numero di ventiquattromila, ma tutti in zone meno repellenti. Per sostenere la sua musica fonda la Clem Sacco Records, un altro esperimento pioneristico di etichetta indipendente. Racconta il maestro Vince Tempera sul sito di Michele Bovi: “A Milano, di fronte al negozio delle Messaggerie Musicali, era perennemente parcheggiato il camper di Clem Sacco. Era il suo personale supermarket: vendeva i suoi dischi, le musicassette e mille altre cose, dai tagliaunghie alle carte da poker con le donnine nude. Io che avevo avuto occasione di suonare il piano nel suo gruppo e conoscevo bene quindi il  talento dell’artista trovavo assurda e mortificante quella situazione. Eppure lui la viveva alla grande: sempre allegro, vitale, coraggioso.” La sua reazione alle disavventure artistiche è in effetti gagliarda: vende enciclopedie porta a porta, fa il piazzista, diventa persino modello all’Accademia di Brera per lo scultore Francesco Messina.
Lo spettacolo, però, sembra averlo già dimenticato con una smorfia di fastidio. Sul finire degli anni ’60 il suo impresario gli comunica che non ha più nemmeno una serata da offrirgli, che le porte sono tutte chiuse. Tutte tranne una, anche se si tratta di una proposta irricevibile, che tutti hanno rifiutato, quasi un marchio di infamia. La proposta è quella di esibirsi en travesti sul palcoscenico dell’Alexander Bar, uno storico locale di Milano per omosessuali. Sacco, che ha una famiglia da mantenere, accetta con il solito entusiasmo e per sei mesi veste i panni di Clementina Gay con tanto di fisico bestiale ingentilito (vabbè) da una parruccona bionda.
Alla fine del decennio successivo l’ormai dimenticato rocker che era stato precursore di tutto si trasferisce alle Canarie sfruttando la sua voce dai mille registri ed esibendosi nei piano bar, ai matrimoni, nei club.
Così sembrava dissiparsi la memoria di un artista che ha operato senza il riparo delle categorie postume in cui lo si può incasellare oggi: dal trash al demenziale, passando per lo stracult. Indecifrabile per i contemporanei, se avesse avuto una mimica diversa, più sofisticata, avrebbe potuto forse far parte dei Brutos, ma Clem Sacco era una irruente forza della natura che operava senza rete, come i più spericolati trapezisti. I suoi sberleffi squinternati giunsero troppo tempo prima che il pubblico e il mercato fossero in grado di accettarli (perché in fondo è tutto da dimostrare che il tuo bacio è come un rock sia meno demenziale del bacio sulla vena varicosa) e per di più in una forma furiosamente esplicita e stravagante. Di fronte all’ostracismo Sacco si è industriato come meglio ha potuto, senza mai rinunciare alla propria libertà, fermandosi sempre un attimo prima di precipitare nella volgarità e senza mai ricorrere all’arte penosamente italiana dell’atteggiarsi a vittima. E quando non c’è stato più spazio per lui se ne è andato ad essere se stesso altrove.
Nel nuovo millennio il già citato giornalista RAI Michele Bovi si interessa al fenomeno dei Cinebox e scova Clem Sacco, ormai completamente dimenticato nel suo ritiro alle Canarie, ma ancora indomito, tra i fumi di un night club e gli acciacchi dell’età. Improvvisamente per questo quasi ottantenne si riaccendono i riflettori della notorietà. A partire dal 2006 Clem Sacco torna a shakerare nonsense ed energia sui palcoscenici italiani. Lo invitano persino sui canali di quella RAI che quarant'anni prima lo aveva messo al bando. In gran forma, con una voce ancora potente, credibile nonostante la pancia, la dentiera scintillante e i capelli tinti.
Il pubblico giovane, scafato da decenni di Elio e di Skiantos, lo invoca a gran voce come precursore e nonno rock e lui, proprio come un nonno casalingo lancia appelli ai suoi piccoli nipoti contro l'alcool, il fumo, la droga e poi agita la platea raccontando a tutto volume le favole della vena varicosa e dell'uovo alla coque, svelando che sotto le giacche sgargianti e i pantaloni bianchi ruggiscono ancora felicemente le mutande leopardate di un artista libero e filosofo, che per primo ha riso in faccia a Belzebù.