sabato 22 dicembre 2012

Ed McBain: lo scrittore che si è superato

Al famoso convegno su “Letteratura e schizofrenia” c’erano tutti quelli che avevano qualcosa da dire: Salvatore Lombino, Evan Hunter, Ed McBain, Hunt Collins, Ezra Hannon, Richard Marsten, John Abbot e Curt Cannon. Non è stato difficile riunirli tutti:  Salvatore Lombino, Evan Hunter, Ed Mc Bain, Hunt Collins, Ezra Hannon, Richard Marsten, John Abbot e Curt Cannon, infatti, sono la stessa persona che negli anni ha assunto una personalità indipendente a seconda del genere letterario prescelto e dell’umore del momento, fino a, qualche volta, sperimentare l’ebbrezza del doppio salto mortale d’identità, cimentandosi in romanzi scritti a quattro mani con il proprio pseudonimo.
Nato sul tavolo della cucina di una casa della Little Italy new yorkese nel 1926, Salvatore Lombino cominciò a circondarsi di una folla di alias a metà degli anni ’50. Da un lato, americano di terza generazione, non si riconosceva nel nome italiano, dall’altro, muovendo i primi passi sul terreno letterario, si rese conto che in anni lontani dalle fascinazioni etniche, nessun editore americano avrebbe pubblicato un libro di un giovane autore a nome Lombino. Scelse di essere Evan Hunter (identità poi assunta legalmente) e, appena ventottenne, pubblicò con grande successo “Il seme della violenza” ispiratogli da una sua esperienza di insegnamento nel Bronx. Sempre come Evan Hunter venne scelto da Hitchcock per la sceneggiatura del film "Gli Uccelli". Una esuberante creatività e la necessità di garantirsi una stabilità economica, tuttavia, lo spinsero a creare un altro se stesso, un suo secondo chiamato Ed Mcbain, col compito di guadagnare soldi scrivendo gialli di tipo poliziesco. Ed Mcbain è quindi un fratello minore di Evan Hunter che si muove nei quartieri meno rispettabili della letteratura, zone in cui Hunter non voleva compromettere la propria fama, ma che finirà per rubare la scena al suo doppio.

Al termine del famoso convegno avreste potuto vederli tutti e due, i più applauditi, andarsene insieme al bar. Evan Hunter in giacca scura e papillon, come se dovesse ritirare l'importante premio letterario che non vincerà mai, Ed McBain comodo nei suoi jeans, nel maglione nero a dolcevita e con un berretto floscio calato sulla testa. Seduti al tavolo del locale si guarderebbero a lungo con gli stessi occhi azzurri (quelli di Hunter più distanti e compassati, più rossi per il fumo ed ironici quelli di Mcbain) prima di offrirsi qualcosa da bere. Un te caldo per lo scrittore di romanzi, una birra per l'autore dei polizieschi. Parlerebbero, ovviamente, di letteratura. McBain sosterrebbe che l'idea di un racconto parte da un cadavere o da qualcuno che sta per diventare tale, Hunter ribatterebbe che prima di tutto la scrittura esige una materia, un argomento da dimostrare. McBain taglierebbe corto: lui quando vuole mandare un messaggio va alla Western Union. Risate da entrambe le parti. Evan Hunter confiderebbe che la cosa più difficile nei suoi romanzi è trovare il titolo, McBain, spavaldo, direbbe che i titoli sono il momento più felice della creazione e che gli piace trovarne che abbiano movimenti in diagonale, che oltrepassano le frontiere di numerosi campi semantici. Dopo diversi bicchieri, Evan Hunter potrebbe persino vantarsi della propria collaborazione con Hitckock e McBain risponderà citando Akira Kurosawa che da un suo libro trasse "Anatomia di un rapimento".
Evan Hunter ed Ed McBain

Che i due si piacciano è chiaro, che possano andare veramente d’accordo è impossibile. Ed Mcbain doveva essere una identità schermo per evitare che qualcuno comprasse un libro a firma di Evan Hunter, credendo di trovarvi un colto romanzo tradizionale, per poi scoprire che nella prima pagina c’era un tizio che sfondava la testa di un altro con un’ascia.  Ed McBain, invece, diventerà più famoso del suo creatore: più libero nell’uso del linguaggio e nell’inventiva, ma altrettanto meticoloso nello studio su ciò che va scrivendo, con una vena inesauribile regolamentata da una rigida organizzazione del lavoro, esordisce con un contratto per tre storie poliziesche con protagonista una intera squadra investigativa di una immaginaria città statunitense. Il successo gli si arrenderà  a mani alte, spaventato a morte da importanti innovazioni al genere: niente più delitti la cui risoluzione è affidati a solitari cavalieri di ventura (“l’ultima volta che un privato ha risolto un omicidio non c’è mai stata”) e nemmeno astute vecchiette dai capelli turchini che risolvono enigmi a colpi di bacchetta magica deduttiva, ma un pugno di virili cavalieri seduti ad una scrivania rotonda, che impugnano come un’Excalibur tazze di caffè nero americano, al nobile cospetto dello schedario criminale. A questa Camelot metropolitana e meticcia Ed Mc Bain mise il nome di 87° Distretto e lo collocò in una grande città immaginaria e senza nome che ricalca, con una rotazione di 90° gradi, la pianta dell’amata New York.
Fu subito chiaro che qualcosa nel modo di intendere il poliziesco stava cambiando per sempre. Mcbain si opponeva ai clichè dei poliziotti bianchi ed irlandesi e alla rassicurante caratterizzazione dell’investigatore come unico protagonista. Il protagonista dei suoi gialli è l’intera squadra investigativa senza che un personaggio prevalga sull’altro. Lo svolgimento della trama è affidato alle regole che determinano la vita di una caserma: la morte, il caso, il tradimento, gli informatori, l'attività scientifica, i conflitti a fuoco. E dove la procedura non è residuale assenza di arte e sentimenti, ma alfabeto e cifra, quasi metafisica, dell'essere poliziotti.
Mcbain incominciò a descrivere la routine del lavoro di polizia in maniera impeccabile, consolidando e dando fama al police procedural (definizione che non amava). Introdurrà anche alcune novità grafiche nei suoi mistery, come la riproduzioni di identikit e di passaporti, i rapporti di polizia battuti a macchina (con tanto di correzioni a penna), persino la riproduzione delle mani dei sordomuti che dialogano nel linguaggio dei segni.

Ho letto l’ultimo Ed Mcbain più di 20 anni fa, ma i ragazzi dell’87° distretto, vincitori non invincibili, me li ricordo ancora come ricordo quelli della A.S. Roma del 1983. Li comandava il tenente Peter Byrnes, ma tutti consideravano il loro fratello maggiore il detective ebreo Mayer Mayer, che per sopportare le ironie dovute al curioso doppio nome, imparò la pazienza e perse tutti i capelli. Nulla in confronto a quello che rischiò di perdere quando il padre, ormai anziano e convinto di essersi lasciato alle spalle pannolini e nasi che colavano, lo presentò alla circoncisione con tutto il suo spirito yddish, scandendone l'immutabile generalità. L'agente più presente nei romanzi è, tuttavia, Steve Carrella: italoamericano, sposato con Teddy, una ragazza sordomuta (altra rivoluzione in anni in cui l'handicap era trattato al massimo con pietà e in ruoli marginali) e padre di due gemelli, è il prototipo del poliziotto onesto che svolge un lavoro brutale con umanità. Curiosamente nelle prime edizioni italiane dei romanzi di McBain il suo nome venne americanizzato in Carrell, in un'ulteriore dimostrazione del processo di rimozione che l’esperienza migratoria italiana ha subito in patria e di persistenza degli stereotipi polizieschi, per cui un detective italoamericano era difficilmente presentabile al lettore medio. Suo malgrado Carrella è diventato il protagonista principale dei mistery dell’87°. In pochi sanno che il suo autore, al terzo romanzo e in omaggio al principio che la serie avrebbe avuto un protagonista collettivo e non singolo, aveva deciso di farlo morire. E fu solo per le pressioni del suo editore che McBain lo riportò in vita, cambiando semplicemente l’ultima riga del romanzo. Al redivivo Carrella si affiancheranno Bert Kling, il più giovane del distretto, reduce della Guerra di Corea e da amori sfortunatissimi, Cotton Hawes caratterizzato dai capelli rossi su cui spicca un ciuffo bianco lasciatogli in ricordo da una coltellata, la donna poliziotto Eillen Burke, Arthur Brown ironicamente nero di nome e di fatto e Roger Havilland, l’agente corrotto e razzista che McBain uccise nei primissimi romanzi, capendo di aver commesso un errore gigantesco nell'economia dei suoi racconti e facendo subito reincarnare lo spirito di Havilland nell’agente Andy Parker, disgustoso e necessario come il suo predecessore. Non mancano i personaggi di contorno e il Sordo, un brillante ed inafferrabile cattivo alla Joker. Ma protagonista è soprattutto la città senza nome con i suoi quartieri (Isola, in italiano anche nell'originale, è quello dove si muovono gli agenti), la sua straziante bellezza condotta al ballo dalla primavera o resa fosca dal nevischio invernale, i suoi delitti commessi nell'abbagliante lusso di un attico o sotto le luci oblique dei sobborghi, le sue festose ironie, i desideri più cupi, le storie che si avvicendano nell'immenso parco degli innamorati e degli spacciatori, le rive del grande fiume che la attraversa, i riverberi inutilmente festosi delle sale gioco e dei casini, le auto della polizia che si allungano nella notte portando giustizia ad effetto doppler. Mai un autore di polizieschi aveva concesso ad un luogo una tale rilevanza. A prendere per mano i lettori - visitatori, infine, compare un ulteriore personaggio che, con bilanciatissimo azzardo, viene usato in maniera appariscente, ossia un narratore onnisciente che non prende parte alle vicende narrate, ma assume il punto di vista della città stessa, di cui è un devoto suddito e come lei è ironico, disincantato, materno e figlio di puttana fino al punto da raccontarci quale è la sensazione che si prova quando un setto nasale va in frantumi, quali pensieri attraversano la mente di un moribondo, per quali percorsi un uomo può perdere la fede in Dio. E se gli va è capace di distrarsi per seguire per tutto un romanzo i pensieri di un assassino solitario e tormentato, che non verrà mai arrestato.
Evan Hunter con Alfred Hitchcock

Si potrebbe ancora continuare dicendo che nei polizieschi dell'87° la microstruttura sociale della caserma diviene paradigma dell’intera macrostruttura sociale. Che McBain ha saputo presagire nella filigrana delle sue opere i segni dell’imbarbarimento metropolitano: l’estremismo religioso, le droghe, le bande giovanili, la corruzione, la violenza che diventa sempre più pervasiva, il male che piano piano prende il sopravvento e che non necessariamente l'indagine riesce a riportare nel suo alveo. Ma ho in mente quella faccenda del messaggio e della Western Union. Sento già il fiato dietro il collo di uno degli agenti dell’87° che mi recita una versione ad hoc della Miranda Escobedo: "Hai il dovere di restare in silenzio. Qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te in tribunale." E allora, saggiamente, mi taccio e torno al bar dove, intanto, Evan Hunter, lo scrittore dalle grandi ambizioni letterarie ed Ed Mcbain, rimasto stritolato nella definizione di giallista, hanno deciso di alzarsi. Diranno di segnare sul conto dell’illustre signor Hunt Collins, o del danaroso Ezra Hannon o di quella vecchia sagoma di Richard Marsten. Salvatore Lombino no, i pregiudizi etnici sono duri a morire.
All’avventore che li ha sentiti chiacchierare di letteratura e che domandava cosa considerassero essenziale per uno scrittore, risposero all’unisono: "Una testa e un cuore. E per favore, per favore, non dimenticate il cuore."
Il cuore di Ed Mcbain ha cessato di battere nel 2005 e con lui hanno finito il loro servizio nella letteratura poliziesca tutti i ragazzi dell'87° distretto. Tornano a casa smontando dai loro turni, raccontando alle mogli, alle amanti, ai figli, ad un bicchiere vuoto, le loro lotte, armati di decenza ed umanità, contro un mondo sempre più dolente. Ci vorrebbe l'insuperabile narratore onnisciente che abitava la città, per raccontarci cosa ha provato la folla di alias dell'ex Salvatore Lombino in quell’Altrove dove, dicono, le moltitudini dell'Io ritornano all’Uno, sopraffatte da una Forza portentosa che, sospettiamo, in questo caso avrà avuto il suo bel da fare.

Sono sempre in obbligo con mio padre che, dopo Nero Wolfe, mi consegnò ai dinamici detective di Isola. Così si osservava in me lo contrappasso. Con questo post, tuttavia, voglio ringraziare Michele, Pippo e Sergio che sono sempre molto affettuosi con questo blog ed il suo autore. Comunico loro che sull’inspiegabile caso è già al lavoro l'intero 87° Distretto.

Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
Il sito ufficiale di Ed McBain
Gli imperdibili:
Attentato Carrella
Due colpi in uno
Chiamate Frederick 7-8024
Tutto regolare, mamma
Gioco di pazienza per l'87° Distretto
87° Distretto tutti presenti
Ghiaccio per l'87° Distretto

martedì 13 novembre 2012

L'uomo che chiese l'età ad una vecchissima signora

Nel 1953 il genere umano conosceva un mucchio di cose su di sé e sul mondo che gli girava intorno: sapeva che la materia è organizzata in atomi e ne aveva sperimentato la terribile potenza, aveva appreso che per milioni di anni il pianeta era stato dominato da esseri informi e da insetti giganti con le mandibole d'acciaio, sapeva che i caratteri dei viventi sono scritti sui geni e che questi si trasmettono da una generazione alle successive, era consapevole anche di abitare in un luogo periferico di una galassia come miliardi di altre, tutte in allontanamento fra loro secondo leggi che sfuggono al senso comune. Curiosamente non era riuscito a stabilire quanto antica fosse la Terra, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto. La faccenda non era di semplice soluzione ed aveva fatto arrovellare le menti più splendide dei secoli passati. Il primo a provarci era stato l’arcivescovo irlandese James Hussher. Nel 1650, Bibbia alla mano, dichiarò con una precisione che fa quasi tenerezza l'ora esatta della creazione terrestre: mezzogiorno del 23 ottobre 4004 A.C.
Ci vollero oltre cento anni perché Georges – Louis Leclerc, conte di Buffon, potesse avanzare un’ipotesi più scientifica. Da alcuni suoi calcoli, che gli valsero una minaccia di scomunica, dedusse un’età per la Terra di 168.000 anni. Da lì in poi fu un susseguirsi di tentativi: ai tempi di Darwin l’età della terra si stimava vagamente in alcuni milioni di anni e lo stesso autore dell’Origine della specie la calcolò in 306.662.400 pignolosissimi anni. Un’autentica autorità scientifica dell’Ottocento come Lord Kelvin, nel 1897, aveva assestato la sua stima sui 24 milioni. Agli inizi del '900, quando l’interesse per la geologia andava gradualmente scemando e il mondo si rivolgeva adorante alla fisica, fu Samuel Haughton ad annunciare che, secondo i suoi calcoli, la Terra aveva 2 miliardi e 300 milioni di anni. “Esagerato!” gli risposero in coro i colleghi, quasi con dileggio. Punto sul vivo Haughton rifece i calcoli e, pur utilizzando gli stessi dati,  si corresse: la Terra aveva 153 milioni di anni.
All'alba del ventesimo secolo, tuttavia, i fisici avevano realizzato una scoperta quasi alchemica: alcuni elementi, detti radioattivi, decadono in altri elementi (ad esempio dopo un certo periodo un atomo di uranio decade in un atomo di piombo) e questo processo avviene in una quantità costante di tempo. La scoperta apriva la strada ad applicazioni molto varie in campo medico, militare e delle scienze naturali.
Quest’ultima fu la strada percorsa da Clair Patterson, un mite chimico nativo di un piccolo paesino dello Iowa. Patterson era specializzando al California Institute of Technology (per gli amici Caltech) quando il professore che lo seguiva nella tesi, conoscendone la precisione e l’abilità, gli affidò un compito noiosissimo, ma che lo avrebbe reso famoso: misurare le infinitesime quantità di uranio decaduto in piombo presente in rocce molto antiche, per stabilire l’età della Terra. “Sarà un gioco da ragazzi” lo incoraggiò prima di sparire. Il gioco durò, invece, dal 1948 al 1953. Il fatto era che Patterson continuò per anni e anni ad ottenere risultati sconfortanti, riscontrando nelle rocce livelli di piombo oltre 200 volte superiori a quanto si aspettava. Alla fine, poiché era sicuro della correttezza delle proprie analisi, si rassegnò al fatto che i campioni di roccia dovessero essere in qualche modo contaminati. E poiché non era facile trovare rocce terrestri abbastanza antiche, pensò di analizzare i frammenti dei meteoriti. Si trattava di una soluzione ardita, ma geniale. I meteoriti, infatti, sono materiali coevi alla formazione del sistema solare e quindi anche della Terra e avrebbero rivelato, con buona approssimazione, l’età del pianeta. A corto di fondi, si auto progettò un laboratorio sterile e riprese a lavorare duramente. Nel 1953 era pronto a strabiliare la comunità scientifica con la sua datazione: 4,55 miliardi di anni, con un margine di errore di 70 milioni. Alcuni colleghi, soprattutto cosmologi ed astronomi, non la presero bene e passarono il resto della loro vita a contestargli il numero. Tutte le misurazione effettuate da allora e fino ad oggi, però, hanno confermato l’età stabilita dall'oscuro ricercatore dello Iowa.
Patterson, tuttavia, era incuriosito dall’episodio delle rocce contaminate che gli aveva rubato interi anni di studio. Si era convinto, a fronte dello scetticismo generale, che quella presenza anomala di piombo fosse di natura antropica. È a questo punto che la sua storia si incrocia con quella di Thomas  Midgley, uno scienziato alla Dick Dastardly, spettacolare, sfortunato e calamitoso. Nel 1932, infatti, Midgley scoprì che addizionando alla benzina il piombo, questo agiva da anti detonatore, eliminando il problema del motore che batte in testa. Il nuovo composto si chiamava piombo tetraetile e gli impianti che lo producevano rivelarono presto enormi problemi di tossicità con diversi operai morti o portati alla follia dai vapori chimici. A fronte dello scandalo scoppiato all’epoca, Midgley, che era un dipendente della General Motors e aveva quote azionarie nell'azienda di produzione del composto di piombo, si presentò ai giornalisti annusando una bacinella di piombo tetraetile, affermandone l’innocuità. Nel 1941 Midgley identificò anche un gas che consentiva ai frigoriferi di funzionare senza rischi di esplosioni. Si trattava del freon, quella sostanza che per decenni ha divorato fino ad assottigliarlo, tonnellate dello strato di ozono che protegge il pianeta. Mentre era sicuramente cosciente dei danni arrecati dal piombo, Midgley non seppe mai che la sua seconda scoperta, per cui ricevette prestigiosi riconoscimenti, gli sarebbe valsa l’epiteto di uomo che ha avuto sull'atmosfera un impatto superiore a quello di qualsiasi altro essere vivente. Ammalatosi di poliomielite, morì nel suo letto, strangolato da un sistema di corde che egli stesso aveva inventato per sollevarsi. 
Se Midgley per denaro aveva riempito di piombo il prossimo più di un infallibile bounty killer, Patterson dimostrò di essere fatto di tutt'altra pasta. Ricevuto un finanziamento da società petrolifere per studiare i sedimenti marini, si accorse che i livelli di piombo contenuti nelle acque delle profondità dell'oceano  contenevano da  3 a 10 volte meno metallo rispetto alle acque di superficie e che questo doveva essere dovuto ai gas di scarico delle automobili finiti in circolo nell'atmosfera. Patterson non ebbe remore, quindi, a dichiarare che il piombo in eccesso era da attribuire alla benzina. Si può immaginare l'entusiasmo con cui fu accolto il risultato dai finanziatori della ricerca. Contro Patterson la lobby petrolifera scatenò una guerra vera e propria: venne boicottato in tutti i modi e le società intevennero sul Caltech perché gli fossero tagliati i fondi della ricerca. Grazie ad alcuni colleghi, però, lo scienziato potè realizzare un ennesimo colpo di genio. Si recò al Polo Nord ed inaugurò la moderna metodologia di ricerca del carotaggio dei ghiacci. In questo modo si accorse che i livelli di piombo atmosferici avevano cominciato ad aumentare costantemente e pericolosamente a partire dagli anni '30 del Novecento, in coincidenza della diffusione del piombo tetraetile nei carburanti.
Senza più dubbi, a partire dagli anni ’60, Patterson dedicò la propria vita alla battaglia per l’eliminazione del piombo dalla benzina e da tutti gli usi umani (veniva ampiamente impiegato anche nell’industria alimentare e delle vernici). In realtà Patterson non aveva finalità ambientaliste. Era partito solo per scoprire quel era il livello naturale di piombo nell’atmosfera, ne aveva riscontrato un eccesso sulla cui dannosità nessuno aveva dubbi e ne aveva dato una spiegazione. Scienza, insomma. Quando però gli ambientalisti usarono i suoi dati per chiedere l'abolizione del piombo, la sua coscienza di scienziato non poteva smentire quello che per lui era un pensiero sillogistico. Ogni qual volta qualcuno glielo chiedeva, Patterson portava i dati scientifici e affermava che il Governo sarebbe dovuto intervenire per limitare la presenza della sostanza. Questo gli suscitò ancora una forte opposizione dei colleghi impiegati nell’industria petrolifera e del piombo in genere e anche di enti governativi indipendenti e commissioni di inchiesta che, quando indagarono sul fenomeno, si guardarono bene dal consultarlo, nonostante fosse la massima intelligenza in materia. A fronte di questo ostracismo Patterson non arretrò di un centimetro dalle sue posizioni. Studiando gli scheletri di uomini vissuti nell’antichità dimostrò anche che essi contenevano 1000 volte meno piombo di quelli dei contemporanei. La mole di dati prodotti era tale che il Congresso degli stati Uniti limitò nel 1970 l’uso del piombo e lo abolì del tutto nel 1986 dalla benzina. Una quindicina di anni dopo il livello di metallo presente nel sangue degli americani era stato abbattuto dell’80%.
Clair Patterson è morto nel 1995, senza aver mai ceduto ad un compromesso. Quando gli chiesero cosa stesse cercando nel suo mestiere, rispose: "l'allegria, l'emozione della scoperta e della comprensione."
La conoscenza dell’esatta età della Terra si colloca tra i più grandi successi della scienza, con importanti implicazioni non solo per la geochimica e la scienza planetaria, ma anche per l'astronomia, la cosmologia, la biologia e persino la religione. Per questa sua scoperta non ottenne il premio Nobel (non è previsto per la geologia, ma avrebbe potuto vincerlo per la chimica) e ottenne scarsissima fama. Basti pensare che alcuni libri divulgativi lo indicano, traditi dal nome non troppo comune, come una donna.
Ebbe pochissimi premi in carriera e quegli stessi non furono motivo di orgoglio “per la consapevolezza della  dignità di uno spirito comune della scienza”. Per questo si disse sempre obbligato ai colleghi che lo avevano aiutato nelle ricerche. Si comportò, insomma, con la fierezza e l'umilità di chi sa come vanno le cose su questo mondo da anni. Per l'esattezza quattro miliardi e cinquecentocinquanta milioni.
Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:

Breve storia di (quasi) tutto di Bill Bryson Tea Editore

mercoledì 17 ottobre 2012

E del sole che trafigge i lungomai che ne sai?

Peggio delle canzoni c'è solo... la critica delle stesse (P.P.)

Come molti mi sono innamorato un’estate in spiaggia, attorno ad un falò, cantando chitarra e voce (ero un po’ ubriaco) la canzone di Battisti che diceva: “così sei fortunato, hai trovato, il posto più esclusivo della storia: le pagine in cui Antonio con Cleopatra si strapazzano ancora come otarie”. O forse ero molto ubriaco e cantavo quella che recitava: “Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse e l’innocenza sulle gote tue due arance ancor più rosse”. 
Non mi ricordo più. Mi separano quasi 20 anni da allora, tanti quanti ne trascorsero per giungere dal verginale rossore della prima fidanzatina, inquinato dal mare nero dell’età adulta, alle acrobazie amorose consumate dai due amanti del mondo antico in versione leoni marini. Insomma quel lasso di tempo per passare da Battisti – Mogol a Battisti – Panella, dal successo inarrestabile all’incontenibile declino, dalle poetiche sentimentali e spesso un po’ stucchevoli alle poetiche ardite e frequentemente indecifrabili. Insomma: dal primo al secondo Battisti.
Tutto ebbe inizio nel 1980 quando Lucio Battisti congeda lo storico paroliere Mogol e nella sua ultima intervista imprime una traiettoria di non ritorno alla propria carriera: “Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l'immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L'artista non esiste. Esiste la sua arte"

Era un’affermazione arrischiata e alla prova dei fatti, nel caso in questione, l’assenza dell’artista parlerà più della sua arte. Ma questa volontà radicale e autodistruttiva che Lucio Battisti metterà a punto con ostinazione aveva del metodo e, a partire dal 1986, troverà uno strumento di dissonanza assoluta:  il poeta – paroliere Pasquale Panella che porterà il rapporto tra versi e note ben lontano dai territori di affinità fino allora conosciuti con le esperienze di Salvatore Digiacomo, del Cantacronache o di Roberto Roversi.
Panella è uno, per farvi capire il tipo,  che dice peste e corna delle poetiche di Dylan, Battiato e De André e poi, ineffabile, manda a Sanremo “trottolino amoroso dudu dadadà”. Un provocatore per il quale “scrivere le canzoni è come fare le rapine” e che, tuttavia, non disdegna di ritornare sul luogo del delitto. 
Quel che ci voleva all’inquieto musicista di Poggio Bustone per ribadire la propria libertà di artista e lanciarsi in una sfida di ricerca che i vecchi fan percepiranno come punitiva, mentre i critici vi leggeranno quasi all'unanimità i segnali di un cupo desiderio di dissolvimento.
Per Panella, invece, si tratta di un intervento dichiaratamente oppositivo alla canzone (un atteggiamento che qualche anno dopo troveremo anche nella empia collaborazione del filosofo Manlio Sgalambro con Franco Battiato), una sfida al musicista che lo obblighi a cercare soluzioni impensate, in un duello ora enigmistico per solutori più che abili, ora quasi fisico nel corpo a corpo di incastrare testi impossibili nella struttura della forma canzone. La canzonetta che prima di allora era stata arte, scienza, passatempo, impegno, diventa per la prima volta campo di battaglia.

L’avvio è, tuttavia, piuttosto pacifico e mette d’accordo nel 1986 critica e pubblico. “Don Giovanni” è un disco sontuoso, che si apre con  “Le cose che pensano”,  un inno al passato remoto che diverrà marchio di fabbrica melodrammatico nella collaborazione con Amedeo Minghi e che Battisti renderà invece una tantum con profonda e commovente malinconia. (In nessun luogo andai/per niente ti pensai/e nulla ti mandai/per mio ricordo/Sul bordo m'affacciai/d'abissi belli assai/Su un dolce tedio a sdraio/amore ti ignorai/invece costeggiai/i lungomai ). Spicca anche il brano che dà il titolo al disco, una dichiarazione di poetica da cui tralucono gli esiti futuri della collaborazione (l’artista non sono io/ sono il suo fumista). Il disco vende molto, occupa la prima posizione in classifica (sarà l’ultima volta per un lavoro di Battisti) ed è sicuramente un pezzo irrinunciabile per ogni amante di musica italiana. Forse tutto troppo facile. Ed è Panella a scompaginare le carte con un primo gesto teppistico. Propone di invertire il metodo compositivo. Da quel momento sarà lui ad inviare i testi e Battisti a musicarli.
La prima prova del nuovo stile è, a distanza di due anni, “L’Apparenza” il primo album dalla copertina bianca e l’ultimo capolavoro di Lucio Battisti. La grafica algida e minimale, l’assenza dei testi, le scarnissime note di copertina sono un manifesto sconcertante del nuovo corso. Mancava persino il video per il lancio del singolo "L'apparenza" e la RAI si arrangiò con una geniale trovata di Vincenzo Mollica che utilizzò scene del film “L’uomo invisibile”.
Nel disco Battisti oppone alla presenza di un sabotatore nella propria officina musicale, un espediente sonoro di grande efficacia. La strategia adottata è quella di sommergere i testi precipitandoli in un vortice di note che ne ottundono le asperità. E sebbene affiori qua e là il nervosismo di qualche brano in cui musica e testo si prendono a spintoni, la composizione è per il resto quasi sinfonica e, quando il testo panelliano è sinceramente poetico, si può gridare al capolavoro come nel caso della operistica “L’apparenza” o nell’incedere drammatico di “Specchi opposti” o ancora in “Per nome”, una canzone in cui  la musica ci rimanda ad un luogo meridiano e assolato, mentre il testo, invece di parlarci di amori estivi e spiagge saettate da tramonti, racconta la sublime svagatezza che rafforza un nome proprio.

Con la solita cadenza biennale, nel 1990, la strana coppia congeda “La sposa occidentale” dove si manifesta chiaramente la colluttazione in atto, con il paroliere nella parte del puglile cattivo (“Io ricerco la via del fallimento più concreto” dichiarava all’epoca) che si diverte a minare il campo avversario e a cospargerlo di cavalli di Frisia, esponendo il cantante alla trappola del ridicolo di fronte all’insonorità dei versi. L’ascoltatore è obbligato ad allontanarsi dall'abituale maniera di concepire e fruire i testi e ad accettare che è in corso uno scontro per cui non c’è da meravigliarsi se con una certa frequenza escano fuori canzoni con gli occhi pesti e il labbro sanguinante. Nella "Sposa occidentale" Panella mette a repentaglio il musicista con il micidiale uno-due delle rime (“gli aggettivi catarifrangenti/infranti e lucenti” oppure “assumi pose inesplose”), l’uppercut dei neologismi (“la ciceronessa”), il gancio sinistro dei diminutivi (la linguetta rosa, la preghierina, il ruscelletto, la capretta), il diretto degli scioglilingua (“"la lotta dei cuscini/senza sonno che spiumano, che..fanno zampilli di pollini che pullulano/aggressivi, irsuti, istigatori di starnuti. ). Insomma, tu chiamale se vuoi cifrazioni.

L’opposizione di Battisti a questo diluvio di parole - proiettili è quasi eroica. Se lo sforzo chiesto è disumano, ecco che spariscono gli archi e gli strumenti e suonano i bit delle macchine. La voce diviene gelida, chirurgica, quasi un metronomo. Viene da pensare che a cantare sia un attonito robot. L’album riscuote un certo successo commerciale anche grazie alla title track in cui Battisti è alle prese con la lunga elencazione di omaggi di un amante sbruffone alla sua donna. Il problema del rapporto tra i versi e la costruzione sonora  è risolto con almeno un paio di colpi di genio. Battisti innanzitutto non rinuncia ad un embrione di ritornello, ma lo miniaturizza, preparato da una lunga cantata a precipizio e riducendolo al solo titolo per poi essere superato di corsa da altre funamboliche trovate linguistiche. Sulle parole “La sposa occidentale che sembra quasi ridere/ e invece lei respira,quasi piangere, ma gira ......” la musica procede in autonomia per alcune battute, quasi dimenticandosi che il verso non si è ancora concluso. Poi riprende, come se nulla fosse con: "dall'altra parte il viso/ ma ritorna portando sue notizie inaspettate." Se gli esegeti panelliani hanno pensato che il paroliere volesse descrivere l'orgasmo della sposa, noi ci accontenteremo di una piena soddisfazione acustica. 

È comunque a partire da questo album che la nostalgia del Battisti mogoliano comincia a farsi acuta nel grande pubblico. E con essa l’ossessione per la sua figura di stella eclissata. Cominciano a circolare foto rubate da paparazzi o da qualche fan spietato: Lucio con le buste della spesa al supermercato, Lucio sgranato in canottiera, Lucio che entrando in auto mostra il dito medio alla macchina fotografica. Lo stesso dito che avrà mostrato a Panella nel 1992 quando il paroliere gli confeziona gli 8 brani di C.S.A.R. sempre più impervi, portandoli, sulla strada dell’estenuazione linguistica, al parossismo.
Ancora una volta, per uscirsene, Battisti sperimenta trovate di ogni tipo. La forma canzone viene sempre più destrutturata e portata sui territori più vari. Panella inventa testi metropolitani costruendoli come sceneggiature e Battisti passa dal cupo techno della traccia iniziale “Cosa succederà alla ragazza” al rap di “Ecco i negozi” dove il genere imbocca per la prima volta la strada che dal ghetto della periferia conduce al  centro commerciale, mentre le stereotipe rabbie e violenze dei rapper si stemperano, con la solita glaciale voce scandita “in una negligenza ed oblio di sciarpe”. E con i ritmi sostenuti arriva anche una giocosa, cinematografica e quasi orecchiabile “La metro eccetra…”
L’album, tuttavia, spiazza quasi tutti. Qualche recensore invoca il ricovero coatto per Battisti, altri citano il giudizio critico di Fantozzi alle prese con la visione della Corazzata Potemkin.

Ancora due anni e nel 1994 esce Hegel, l’ultimo album di Lucio Battisti. Panella questa volta cala il musicista in un labirinto eretto coi muri freddi e scientifici della filosofia occidentale. Battisti prova a portarsi il filosofo in discoteca, indugiando più del dovuto sul famoso falsetto, ma alla prova dei fatti, cinto d'assedio, si perde nella monotona erranza degli spazi concessigli da Panella. L’album venderà appena 100.000 copie e gli alienerà anche il grosso della critica. Hegel è, in fondo, il pop che fagocita sé stesso. La contemporanea sconfitta e trionfo del duo.

Allo scadere del biennio successivo Battisti non pubblica l’album atteso, mentre Panella fa sapere che la collaborazione è finita. L’assenza di Battisti continua ad essere rumorosissima. Una trasmissione TV lancia l’infame iniziativa degli Abbattistamenti con cui si invitano gli spettatori a segnalare la presenza di Lucio Battisti sul territorio italiano anche con foto e video. Nel 1998, allo scadere del secondo biennio senza la voce di Battisti, rockol.it confeziona una bellissima beffa e il 31 marzo annuncia l’uscita del disco “L’asola” con tanto di disegnino minimale di un bottone e 13 titoli di canzoni. Il giorno successivo molti giornali abboccano al pesce d’aprile (l'acrostico delle iniziali delle 13 canzoni formavano proprio questa parola) implicito nella sciarada L’asola – la sòla ovvero, con perfetto stile panelliano, il modo romanesco per indicare una bufala.

A settembre, invece, non è uno scherzo la notizia della morte del cantante che diventa uno psicodramma collettivo da cui la nazione si libera cantando ad ogni occasione le canzoni composte da Battisti sui testi di Mogol (o viceversa).
A suggellare l’incomprensione totale del lavoro del secondo Battisti ecco gli illuminati discografici del periodo bianco proporre una raccolta postuma dei 5 album (incredibilmente riassunti su 3 supporti in barba a qualsiasi criterio filologico) col titolo “L’incontro”. Fortunatamente Pasquale Panella, interpellato, impose come titolo "Il cofanetto” per tautologia e con un rimando tombale all’esperienza di chi ha tentato di  coinvolgere l'arte musicale nella dissoluzione della propria (la poesia ridotta ad aforsima, scioglilingua, arguzia, verso per canzone che la musica cosparge, come petali, di note.) È curioso notare, insomma, quanto Panella sia stato un atteggiamento del Battisti più misantropo e Battisti il rappresentante di un’arte ignara che nonostante i parolieri è tale. 
Concludendo: Battisti, che rimane un grande maestro dell'arte canzone è riuscito a suscitare più di altri il dibattito sul valore del "testo" e della "musica", considerate come entità autonome. Il bello della canzone, però, è che non si dà come tale se non nella mistura esclusiva di parole e musiche (no, non servono nemmeno pensieri e parole). Purtroppo il silenzio che l’artista si era imposto lascia il campo a qualsiasi interpretazione in merito. Lucio Battisti era consapevole di questa sconvolgente, contraddittoria innovazione? Al momento è impossibile chiederglielo. Come diceva il poeta (quello? Quell’altro?) lo scopriremo solo morendo.

Se questo post contiene qualche momento di piacevolezza, lo devo a mio fratello Antonio che mi ha scritto la musica. 


Fonti, rimandi, ispirazioni, fanatismi:

Il gruppo di discussione su newsland
Una recensione favorevole di Hegel 
Pensieri e parole, ma di Panella 
Una recensione sul cofanetto 
Battisti Panella sul Tellusfolio  

Specchi Opposti. Lucio Battisti. Gli anni con Panella di Ivano Rebustini Ed. Arcana

sabato 22 settembre 2012

I mondiali dell'Olanda: rivoluzioni e secondi posti (II parte)

Non so quale sia stata la mascotte dei mondiali di calcio in Argentina del 1978, ma una testa mozzata di cavallo avrebbe reso bene l’idea. In quell’anno, complice la FIFA, il calcio celebra la dittatura militare di Videla e la sua organizzazione che lancia dal cielo tonnellate di coriandoli sui campi di gioco e centinaia di corpi di desaparecidos in mare. Nel sinistro delirio di festa e lutto, gloria e vergogna, felicità e terrore, il boato dei tifosi copriva le urla degli oppositori torturati nelle palestre del regime e la popolazione tutta, in quel mese, sospese la realtà per i 90’ minuti delle partite per poi tornare a fare i conti con i tetri picchetti d’onore, gli amici scomparsi, i familiari torturati, la crisi economica.
La riorganizzazione nazionale dei generali aveva individuato nel mondiale di calcio una imperdibile occasione propagandistica: si sprecarono gli appelli al patriottismo e gli slogan sulla pace e l’amicizia tra i popoli, meglio se suggellati dalla consegna della Coppa del Mondo nelle mani dei giocatori argentini. Quelli stessi che all’esordio del mondiale, inclusi in un girone che comprendeva le forti Ungheria, Italia e Francia, ricevettero la visita dei membri della giunta militare che, secondo la testimonianza del centravanti Leopoldo Luque, li avvisarono di comportarsi bene nel “girone della morte”. Con la passione che hanno nell’esercito per le metafore, era un po’ come ricevere un invito a cena da Hannibal Lecter.

Le altre nazioni, intanto, si voltano a guardare altrove, preferibilmente in direzione dei nuovi televisori a colori che trasmettono la rassegna. L'unica eccezione è la televisione olandese che, al posto della cerimonia inaugurale, manda in onda le immagini delle donne armate di fazzoletti che marciano davanti al palazzo del governo per chiedere notizie dei loro figli.
E la nazionale degli arancioni in questo scenario si trovava di fronte a due vie per passare alla storia del calcio: non partecipare alla liturgia mondiale o immolarsi sull’altare del secondo posto perdendo immeritatamente la seconda finale consecutiva contri i padroni di casa. Le percorse in un certo senso entrambe: i giocatori più rappresentativi della squadra che appena 4 anni prima aveva cambiato il modo di intendere il calcio, infatti, rimasero a casa. Van Hanegem perché non aveva trovato un accordo economico con la Federazione, Joan Crujiff per protesta, si disse, contro il regime militare argentino, ma in verità perché sconvolto da un tentativo di rapimento subito in Spagna.
Non c’era nemmeno il guru Michels, sostituito in panchina dall’austriaco di scuola Feyenoord Ernst Happel, un altro sergente di ferro, più difensivista del predecessore, ma ugualmente capace e dotato di idee all’avanguardia e non esclusivamente in campo calcistico. Riuscì, infatti, a scandalizzare persino la liberale Olanda autorizzando la presenza in ritiro non solo di mogli e fidanzate dei calciatori, ma anche di accompagnatrici e groupie, secondo il motto per cui “un giocatore sessualmente felice è un giocatore migliore.”

Per migliorare il secondo posto di Germania ’74, però, ci voleva qualcosa in più che qualche fan disponibile sotto le lenzuola. Happel pensò bene di affidarsi ai reduci del 1974,  ed ecco ancora Johnny Rep bello e incostante realizzatore, Rob Rensenbrink l’infallibile rigorista che in carriera sbagliò un solo calcio dagli 11 metri pur avendo l’abitudine di dichiarare ai portieri dove avrebbe calciato, il generoso Joan Neeskens, l’elegante Krol e l’insuperato Haan, a cui affiancò i gemelli Van dekerkof, Brandts, Poortvliet e, in porta, Schrijvers preferito al pittoresco Jongbloed.
La squadra olandese non ha più l’implacabile bellezza dell’arancia meccanica di quattro anni prima e il cammino iniziale è irto di ostacoli e di differenze reti. Dopo essersi sbarazzati dell’Iran con una tripletta di Rensenbrink la squadra si inceppa. Pareggia zero a zero con il modesto Perù e addirittura viene sconfitta per 3-2 dalla Scozia, arrivando al girone di semifinale solo per il maggior numero di gol segnati.
Nelle tre partite decisive per la finalissima, però, la squadra rimette in mostra un bel gioco atletico e smaliziato seppellendo per 5-1 l’Austria e pareggiando in rimonta per 2-2 con la Germania Ovest nella rivincita di Germania ‘74. Nella partita decisiva contro l’Italia, che aveva mostrato il miglior calcio del torneo, l’Olanda andò subito sotto con una autorete di Brandts che costò anche un infortunio al portiere titolare. Happel rispolverò il folle 37enne Jongbloed, l’ultimo dei provos con le ginocchiere bianche e le mani nude. A fare la figura del vecchietto, però fu l’inossidabile Dino Zoff trafitto da un tiro dalla lunga distanza di Brandts (dopo che gli olandesi non restituirono palla agli azzurri su un fallo laterale procurato per curare il Dinosauro azzurro) e da una traiettoria di straordinaria perizia balistica da 40 metri di Haan. Ma tutta la squadra azzurra, a partire dal secondo tempo, fu messa sotto dal furente pressing olandese e da una metodica strategia del fuorigioco, con un seduttivo strapotere tecnico e tattico che ne legittimò la vittoria e fa tutt'ora passare in terzo piano l’animosità minacciosa  con cui quella squadra sopperiva all’assenza di Crujiff e Van Hanegem. L’Olanda era ancora in finale e ancora contro i padroni di casa.

L’Argentina era arrivata alla partita decisiva  in carrozza grazie ai buoni uffici FIFA che consentirono agli uomini allenati da Menotti di giocare la partita decisiva conoscendo già il risultato del Brasile, diretto avversario per la finale. Una grande mano venne anche dagli avversari dell’ultimo incontro di semifinale, i peruviani che, dopo aver ricevuto la solita amichevole visita dei militari e le intimidazioni notturne e diurne dei tifosi di casa, pensarono bene di schierare in porta il portiere argentino Quiroga, appena naturalizzato peruviano. Quiroga volle strafare e fece del suo meglio per incassare i 6 gol necessari all’Argentina per ottenere una migliore differenza reti sul Brasile. Garantì così la finale agli uomini di Menotti, un credito illimitato e un carico di svariate tonnellate di grano al proprio governo (concesse contestualmente alla gara dal governo argentino) e un’eterna ignominia su di sé e sulla marmelada peruviana con cui passò alla storia l’incontro.
Le formazioni di Olanda e Argentina

La finale si giocò nel pomeriggio del 25 giugno a Buenos Aires. Che l’Olanda stesse per combattere una battaglia persa lo capirono subito tutti, a partire dalla ricusazione argentina dell’arbitro scelto per la finale (l’israeliano che aveva diretto l’unica sconfitta dei padroni di casa contro l’Italia), che venne sostituito da un tremebondo Sergio Gonella. Il centravanti Rep ricorda le ore precedenti alla partita con angoscia: caldo torrido, militari armati ovunque e il pullman dell’Olanda circondato da centinaia di scalmanati che tiravano pietre e manate contro il mezzo, costretto a impiegare un’ora per percorrere i 20 Km che lo separavano dallo stadio, in una atmosfera a dir poco intimidatoria. Quando le squadre scesero in campo l’antipasto arbitrale: Gonnella irritò gli olandesi imponendo a René van de Kerkhof di togliere la fasciatura al braccio che però il giocatore aveva indossato, col bene stare della FIFA, per altre partite del mondiale. Gli olandesi minacciarono di non giocare e si arrivò ad un compromesso per potere iniziare l'incontro. L’arbitraggio dell’italiano è a senso unico, sostenuto da colleghi guardalinee che fischiano all’Olanda fuorigioco immaginari e permettono all’Argentina diversi colpi sotto la cintura e almeno uno troppo al di sopra di essa, che costò a Neeskens la perdita di due denti.
Dick Nanninga

Il lampo in rete del matador Mario Kempes nel primo tempo è l’annuncio di un messo che porta una notizia fatale, che già tutti conoscono: Argentina campione del mondo! Quando il panchinaro Dick Nanninga, entrato al posto di Rep, inzucca dall'alto dei suoi basettoni un pallone che planava dimenticato in area di rigore argentina al minuto 82, quindi, più che a un gol si pensa ad un incidente diplomatico.
Nei restanti 10 minuti di gioco, però, si rischiò la dichiarazione di guerra vera e propria. Il capitano in cerca di ventura è Rob Rensenbrink, centravanti mite ed introverso con un talento che molti paragonarono a quello di Crujiff e che egli però consumò a rischiarare il grigiore minerario e burocratico di Bruxelles, fabbricando, con il soprannome di serpente, la fortuna nazionale ed europea dell’Anderlecht. E con astuzia serpentina, a tempo scaduto, nel pomeriggio di Buenos Aires, Rensenbrink raccoglie un lungo lancio della difesa, brucia in velocità il diretto avversario e scavalca il portiere con un tiro deflagrante, una granata lanciata dalla linea di fondo campo contro l’intera nazione argentina. Il pallone viene disinnescato dal palo a porta sguarnita. Pochi centimetri separarono Rensenbrink dalla Coppa del Mondo e dal titolo di capocannoniere del torneo, mentre 25 milioni di argentini ripresero fiato. Lo riprese anche Gonnella per riversarlo nel fischietto a chiudere, non si sa mai, i primi 90 minuti di gara. Anni dopo il capitano dell’Argentina Daniel Passarella ammise che in ogni caso l’arbitro avrebbe trovato il modo di annullare quel gol. O avrebbe concesso un recupero illimitato o avrebbe lasciato che la folla invadesse il campo in una variante sportiva di golpe. I supplementari riconducono tutti alla ragione. L’anziano Jongbloed smette i panni dell’eroico portiere volante e si china a raccogliere dalla rete i tiri di Kempes (che diventa così lui il capocannoniere del torneo) e di Bertoni. Il gol di Nanninga torna ad essere un gesto provocatorio, una scritta pacifista sul muro di una base militare, l’ultimo ceppo da ardere nel falò delle vanità in cui si consumarono i 2 mondiali olandesi degli anni ‘70. L’Olanda non si presenterà alla cerimonia di premiazione per protesta contro l’arbitro e per non stringere le mani di Videla e soci. Per il calcio totale è il morbido crepuscolo che sancisce il mito dei perdenti di successo. Un crepuscolo che preparava una gelida notte, rischiarata soltanto dal sole di mezzanotte degli europei del 1988 vinti dalle galoppate di Gullit e dai capolavori di Van Basten.
Videla consegna la coppa

Per rivedere gli arancioni sul palcoscenico di una finale bisognerà aspettare i mondiali del 2010 in Sud Africa, ma questa volta ero io quello distratto da una recente paternità e da una precoce eliminazione della nazionale italiana. Dicono le cronache che l’Olanda abbia giocato bene, vincendo a punteggio pieno il girone eliminatorio e superando in rimonta ai quarti il Brasile grazie ad una doppietta di Sneijder. Sbarazzatasi dell'Uruguay in semifinale, l'Olanda trova a contenderle il titolo la Spagna. E' una partita in cui gli orange usano il randello, forse avvezzi all’idea che la vittoria è ostile alla bellezza e che se quest’ultima, come dicono, può salvare il mondo, di certo non può far vincere la Coppa del mondo. E d’altra parte il vessillo della rivoluzione calcistica era passato agli avversari, alla Spagna dello smisurato possesso palla, dagli orizzonti rasoterra, dalle identiche traiettorie che preparano la certezza di letali incursioni verso la rete avversaria. L’ennesima reincarnazione del calcio totale che nella sua perfezione innegabile mi ricorda costantemente l’ingranaggio di un orologio, la visione di un balletto classico e tutto quello che lascia la bocca aperta per lo stupore e per uno sbadiglio.

Epilogo: Nel giugno 2008 L'Instituto Espacio por la Memoria di Buenos Aires ha organizzato una partita tra Argentina Olanda nello stesso stadio e con alcuni dei protagonisti della finale di trenta anni prima. La partita è terminata, come è giusto, in parità e, come ancora più giusto, in abbracci.
Rob Rensenbrink


Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:


Il racconto del Mondiale

La sintesi della finale
Per acquistare la maglia storica dell'Olanda ai mondiali
Testimonianze su Peacereporter
La rivoluzione dei tulipani di Alec Cordolcini Ed. Bradipolibri
Pallone desaparecido di Alec Cordolcini e Andrea Maggiolo Ed. Bradipolibri

martedì 4 settembre 2012

I mondiali dell'Olanda: rivoluzioni e secondi posti (I parte)

Mondiali di calcio in Germania Ovest del 1974. Mio padre è tesissimo durante una Italia - Polonia decisiva per il passaggio del turno eliminatorio. Ad un minuto imprecisato del primo tempo mia mamma ha la nausea. L’Italia, in effetti, giocava da voltastomaco, ma non era quella la causa del malessere. Il motivo ero io, che nelle profondità uterine stavo organizzando le mie 23 coppie di cromosomi in qualcosa di più serio di un grumo di cellule e, con i mezzi a mia disposizione, lo manifestavo al microcosmo familiare. Fu così che mio padre seguì la moda di quei giorni e mandò al diavolo Valcareggi (pur senza entrare nella storia come Chinaglia), corse in farmacia per acquistare una test di gravidanza e sciolse per sempre la tensione del tifo in felicità genitoriale, scoprendo che il calcio era relativo negli stessi giorni in cui tutto il mondo lo consacrava come totale.
Questa del calcio totale è, come il cannocchiale, l’affettatrice meccanica, la commestibilità delle patate e la pacifica convivenza tra chiese calviniste e quartieri del sesso, una invenzione olandese. A dirla tutta anche la stessa Olanda è una invenzione degli olandesi, che in una loro personalissima conquista del west, con un complesso sistema di dighe e sbarramenti, rubarono chilometri quadrati al mare, agli acquitrini e alla malaria  e in quegli spazi si stabilirono. 
E il concetto di spazio è il grimaldello per la comprensione del calcio totale e l’ossessione che ne giustifica il successo. Se la skyline di una città come New York, con i suoi grattacieli e gli impiegati che al loro interno compilavano pratiche attendendo la domenica, giustificarono la nascita del gioco del cruciverba, il piatto confine dei paesi bassi e i geni ereditati dai coraggiosi batavi diedero vita ad un football architettonico che realizzò la fusione tra la linea orizzontale, costante presenza ad un popolo che vive sotto il livello del mare, e la linea verticale che con uno scarto di 90 gradi dall’orizzonte si lancia come una freccia avvelenata in direzione dell’area di rigore, in quelle che diverranno famose come verticalizzazioni.
“Crea lo spazio, occupa lo spazio, organizza lo spazio” è il motto del calcio olandese che si incide ovunque sui Mondiali del 1974 in Germania Ovest. Ovunque tranne che sulla Coppa del Mondo. 

La nazionale dei tulipani in quell’anno, però, non partiva da favorita. Lo spogliatoio diviso in due blocchi assomigliava ad una santabarbara pronta ad esplodere per una minima scintilla. Da una parte l'esca dei giocatori dell’Ajax, club della raffinata borghesia di Amsterdam, dall’altra la pietra focaia dei giocatori del Feyenoord, la maschia squadra dei portuali di Rotterdam.
Per tenere assieme queste due anime fu chiamato Rinus Michels, ex allenatore dell’Ajax che mieteva successi nelle competizioni europee per club dei primi anni ‘70. Era detto il generale e, a rivelare compiutamente le geometrie del calcio totale, imponeva il suo verbo ai giocatori: “tutti devono sapere cosa fare in qualsiasi zona del campo”. Aveva due sole regole: la prima diceva che l’allenatore ha sempre ragione. La seconda: quando l’allenatore ha torto, si applica automaticamente la prima regola.
Un originale poster di Crujiff
Facile immaginarselo in posa equestre mentre comanda dall'alto di una collina un indimenticabile undici di giocatori, tra cui spiccava il talento soprannaturale di Joan Cruijff, prototipo del giocatore totale: polemico, anticonformista, narciso, bello in campo e fuori. È il perno su cui gira la combinazione tra individualismo e collettivismo che farà grande l’Olanda. C’erano poi Neeskens, Rud Krol, Haan, Rep e uno dei giocatori più amati dagli olandesi, un autentico numero due alle spalle del divino Crujiff: Wim van Hanegem, detto lo Storto. È l’antitesi di Joan, forse la sua nemesi: bandiera del Feyenoord, lento nei suoi movimenti ingobbiti, un carattere lupesco e sarcastico, poco incline alle pubbliche relazioni, ma invaso dal dio dell'assist e con un piede al servizio di abilità illusionistiche per estrarre dal cilindro spazi impensabili ai compagni a cui restava soltanto di svelare il trucco, depositando il pallone in fondo al sacco di una concretissima rete. All’inizio del torneo Van Hanegem non sa ancora che il destino ha in serbo per lui una delle sue trovate più crudeli e beffarde. A completare quello che può sembrare uno sgangherato assembramento di fotomodelli capelloni arriva la ciliegina sbilenca sull'improbabile torta all'arancio: la convocazione del portiere semi professionista Jan Jongbloed. Per lui Gianni Brera, che non amava il calcio totale, non ebbe bisogno di indugiare a lungo nella sua inesauribile collezione di appellativi. Lo soprannominò il tabaccaio, in quanto era questo il vero mestiere di Jongbloed quando Michels gli chiese di vestire la maglia di terzo portiere per i mondiali del 1974. La convocazione  di questo 33enne portiere anarco surrealista lasciò tutti esterrefatti, compreso il convocato e quando nelle partite pre mondiale venne schierato titolare alcuni storsero il naso e gli altri risero forte. Jongbloed era sgraziato al limite della goffaggine e alcune sue caratteristiche (la magliette color giallo canarino, le ginocchiere bianche, la scelta di parare a mani nude con un incongruo numero 8 sulle schiena) sembravano giovare solo al suo folle personaggio.  Jongbloed, tuttavia, giocava benissimo coi piedi, fuori dai pali e in posizione di libero. Perfetto per quello che Michels voleva da un portiere. Alla fine del mondiale risultò il numero 1 meno battuto della competizione.
Jan Jongbloed

Il torneo inizia per l’Olanda con un cammino regolare. Vince agevolmente il girone eliminatorio e meraviglia in quello di semifinale, regolando con 4 gol l’Argentina, affondando con un 2-0 la Germania Est e presentandosi da favorita alla partita decisiva con i campioni in carica del Brasile. La partita fu la consacrazione del calcio totale. I brasiliani, costretti a ballare la samba fuori tempo dall’atletismo olandese tutto rock and roll, si comportano come ballerini ai primi passi, pestando in continuazione i piedi al partner. I verde oro non vedono palla, si innervosiscono, assestano mazzate come un Galles qualunque e, complice un arbitraggio condiscendente, la buttano in rissa. L’Olanda non si lascia intimorire, spezza il pane del football totale e vince 2-0 con gol di Neeskens e Crujiff. 
In finale una Olanda acciaccata dai pestoni carioca incontra i padroni di casa della Germania Ovest. È La forza irresistibile del calcio totale che lotta contra l’immobile resistenza della tradizione all'italiana. Per Wim Van Hanegem, lo storto centrocampista dai piedi fatati, però, non è solo la partita di calcio più importante della carriera. Nel settembre del 1944, infatti, il neonato Van Hanegem si è salvato da un furioso bombardamento nazista che accanendosi contro lo sperduto villaggio che abitava, gli ha ucciso il padre, un fratello e due sorelle. Da allora il subconscio lavora in lui con regolarità implacabile. Egli non vuole vincere la Coppa del mondo, vuole vendetta. Il boato dello stadio di Monaco dovette rievocargli il rombo degli aerei da caccia sul proprio villaggio, gli sembrò forse di rivedere nel manto erboso il luccichio del pelo di belva che gli latrava a pochi metri dal viso con denti d’acciaio e che sul punto di addentarlo lo risparmiò, portandosi via in cambio metà della sua famiglia. Negli spogliatoi esorta i compagni a “schiacciare i tedeschi” e la squadra lo prende in parola. Batte il calcio di inizio, realizza una nenia di 15 passaggi consecutivi in orizzontale, consegna il pallone a Crujiff che si fionda in area di rigore e lì viene atterrato.
È rigore che Neeskens trasforma in gol. L’Olanda è in vantaggio al primo minuto di gioco e la Germania non ha nemmeno toccato palla, in una perfetta apoteosi del calcio giocato dall’Arancia Meccanica olandese. L'accostamento non è peregrino. Come nella pellicola di Kubrick c’è qualcosa di nietzschiano nel luminoso dinamismo della squadra olandese, nel furore del pressing e nel selvaggio moto continuo di giocatori che si scambiano di posizione in un eterno ritorno all’uguale 4-3-3 di partenza. È Dioniso che gioca a pallone. Ma la Germania è pur sempre la patria di Nietzsche. Sotto di un gol, ci pensa un terzino ad alta densità filosofica, se non altro per la sua folta barba da presocratico, a rimettere a posto le cose. Si chiama Paul Breitner e occupa la fascia sinistra nel calcio e nella vita (in quest’ultima aggirandosi dalle parti di Mao). Quando si presenta l’occasione dal dischetto del rigore sceglie Occam e con una rasoiata dagli 11 metri recide la fantasiosa baldanza olandese. Sul punteggio di parità l’oscuro Berti Vogts pedina stretto il divino Crujiff con marcatura blasfema che ne dimostra per una notte l’inesistenza. Una notte sola, ma quella giusta. L’Olanda gira a vuoto intorno alla ferrea volontà di vittoria tedesca. Sul finire del primo tempo, il rapace Gerd Muller recupera un pallone che sembrava perso, indica con una finta a Jongbloed lo scaffale più alto della tabaccheria e lo lascia di sasso rubando dal bancone il bottino grosso: una coppa del mondo. Al termine della partita le lacrime più amare, lacrime da bambino, da incubo infinito, furono piante da Win Van Hanegem. A chi provava a consolarlo rispose: “non mi interessa se abbiamo giocato bene, loro hanno ucciso la mia famiglia, io li odio.” Sulle consolazioni dei secondi si fece poche illusioni anche Crujiff che congedò i mondiali del calcio totale con una frase perfetta: “Noi fummo i migliori, ma loro furono ancora meglio.”
Lo storto Van Hanegem

Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
 http://www.storiedicalcio.altervista.org/calcio_totale_olanda.html
http://calcioolandese.blogspot.it
http://calciatoricapelloni.wordpress.com
http://www.ciociari.com/Eco72/olanda.htm
http://www.youtube.com/watch?v=DsnK_4IWBWc
La rivoluzione dei tulipani di Alec Cordolcini Ed. Bradipolibri

martedì 24 luglio 2012

Sul polo sventola bandiera bianca

Il telegramma diceva: “Permetto informarla che Fram procede per Antartide”. La firma era un ruggito nel nome di Roald Amundsen. 
Robert Falcon Scott, a capo della spedizione Terranova, capì subito che quei pochi punti di inchiostro nero sulla distesa bianca del foglio stavano per prefigurare, agli occhi di una spietata divinità del gelo, la drammatica competizione che lo avrebbe opposto ad Amundsen nelle vastità antartiche. Una competizione per essere il primo uomo a raggiungere il Polo Sud.

Robert Falcon Scott, ufficiale di marina inglese, non aveva una passione innata per i ghiacci. Per non essere inghiottito dalle sabbie mobili di una carriera anonima, tuttavia, non gli restava che fare leva su imprese  straordinarie. Nel 1901, dunque, si fece nominare capo spedizione della nave Discovery, per la prima esplorazione del continente antartico. La Discovery raggiunse notevoli risultati scientifici e portò lo stesso Scott, insieme all’amico Edward Wilson e ad Ernest Shackleton, fino a 480 miglia dal polo sud. Nel 1909 lo stesso Shackleton, questa volta senza Scott, arrivò a sfiorare l’impresa ordinando il rientro alla base a soli 180 chilometri dalla meta a causa delle pessime condizioni meteo e di salute del gruppo che capeggiava, passando nuovamente il testimone a Scott.

Roald Amundsen
Roald Amundsen, norvegese, era invece un veterano dei ghiacci del nord tra cui si era mosso fino a scoprire il leggendario passaggio a nord ovest. Quando seppe che sul polo nord accampavano pretese di conquista ben due esploratori americani, rivolse le sue attenzioni all’inviolato Antartide. Raccolse ufficialmente i fondi per una spedizione nel mare Artico e salpò con la nave Fram dichiarando che si muoveva per raggiungere lo stretto di Bering. Dava così al mondo intero (e principalmente a Scott)  l’impressione di voler battezzare col nome del re di Norvegia qualche baia o tratto di mare boreale. Solo in pieno Oceano Atlantico, nel porto di Madera, comunicò all’equipaggio le sue reali ambizioni. Ottenne il consenso di tutti e spedì il suo telegramma a Scott che, ostentando imperturbabilità, non potè far altro che raccogliere il guanto di sfida.

La gara che si consumava in Antartide nel biennio 1910 - 1912 vedeva fronteggiarsi due uomini e due concezioni diverse dell'esplorazione. L’audacia, la sfrontatezza, l’organizzazione puntigliosa, l'affiatamento tra uomini e animali, la rapidità di azione e di pensiero dalla parte di Amundsen; sul territorio di Scott, invece, si dispiegava la costellazione disegnata dall’inclinazione puritana del suo tempo: un luccichio di arroganza cortese, distacco, buona educazione, sherry da bere a fine cena e, su tutto, la responsabilità del buon nome di una intera nazione.

Inglesi e norvegesi si accamparono nell'avamposto della barriera di Ross agli inizi del 1911. Scott era deciso a seguire le orme della spedizione di Shackleton del 1909 e quindi a muoversi su un territorio già battuto e descritto fino a 180 km dal polo. Amundsen fece base più ad ovest, in un punto più vicino di 100Km alla meta rispetto al rivale, ma con un territorio interamente inesplorato. Amundsen pianificò la sua missione con precisione da laboratorio chirurgico. Commise un unico errore a cui riparò facilmente. Ipotizzando l’imminente arrivo della primavera e bruciando di impazienza, partì alla volta del polo ad inizio settembre del 1911 per poi tornare alla base dopo 7 giorni, ricacciato indietro dalle incalzanti bufere. Attese quindi il mese di ottobre e ripartì con  4 suoi compagni, trasportando delle slitte ultraleggere al traino di una muta di cani addestrati.
Scott si mosse, invece, il primo di novembre 1911, con 14 compagni, due motoslitte, 10 pony della Manciuria e ventitré cani. Già al quarto giorno le motoslitte erano inutilizzabili (“le macchine tradiscono il sogno”, scrisse Scott nel suo diario). Ai primi di dicembre tutti i cavalli, su cui aveva fatto grande affidamento, erano stati abbattuti per manifesta inadeguatezza a sostenere l'ostilità del clima. L’11 dicembre il capitano diede l’ordine di rimandare indietro, insieme ai 4 uomini più stanchi, anche i cani, animali superbi, ma che nessuno sapeva governare. Il 4 gennaio 1912, infine, Scott decise di proseguire per il polo sud con una spedizione di 5 uomini, rispetto ai 4 programmati. Portava con sé l'amico di sempre e responsabile scientifico della missione, dottor Edward Wilson, l’ufficiale Henry Bowers, il Capitano dell'esercito Lawrance Oates, detto il Soldato e, a sorpresa, il sottoufficiale Edgar Evans, scelto per le sue straordinarie doti di resistenza. In assenza dei cani, si incamminarono sui ghiacci trainando a braccia le pesantissime slitte, nell’unica soluzione che parve onorevole a Scott per compiere l’impresa.

Il capitano annotava meticolosamente sul suo diario le vicende di quei giorni. Nelle pianure che si susseguono ai ghiacciai, sul fondo dei crepacci, nelle cime spazzate da venti forsennati, l’Antartide ci appare il luogo in cui la natura si mostra all’uomo nel suo volto più diabolico e insondabile, lasciando riconoscere a chi esamina i fatti, però, la sua livida ironia. Il 17 dicembre Scott si mostrava rinfrancato, descrivendo i suoi come degli studenti di college in gita: “trainiamo le slitte in canottiera e siamo abbronzati. Forse la nostra fortuna sta girando.” L'unico ad aver girato, invece, era Amundsen che, dopo aver raggiunto la boa del polo sud 3 giorni prima, si incamminava verso il ritorno alla base in quella che fu ingenerosamente definita la più lunga corsa sugli sci della storia.
La spedizione inglese

Ignaro di tutto, il 6 gennaio 1912, il gruppo di Scott superava il punto estremo raggiunto da Shackleton 3 anni prima. Per quanto a loro conoscenza, si trovavano alla latitudine più meridionale mai toccata da uomo. L’entusiasmo durò pochi giorni. Il 16 gennaio Bowers avvistò tracce di cani e una bandiera nera con i resti di un campo. Scott non si fa illusioni e annota: “Mi dispiace per i miei leali compagni, sarà un ritorno penoso.”

Praticamente seguendo le tracce dei rivali, il 18 gennaio 1912, alla latitudine di 90° sud trovarono una tenda e la bandiera norvegese piantata da Amundsen 35 giorni prima. Irrigidito dal gelo, il tessuto non sventolava, agitandosi lugubre al vento polare. Dentro la tenda Scott trovò, a lui indirizzata da Amundsen con un omaggio crudele, una lettera da consegnare al re di Norvegia per testimoniare, nel caso fosse perito nel viaggio di ritorno, il proprio successo al mondo.
Nel diario si legge: “Questo è un posto spaventoso ed è terribile per noi aver faticato tanto per arrivarci senza il premio di essere i primi.” Agli estremi del mondo, Scott, addestrato alle evenienze più terribili, si faceva sorprendere dall’esperienza più frequente nella vita, la sconfitta. Neanche quella realtà capovolta, tuttavia, poteva scardinare le coordinate esistenziali tracciate sulla mappa della sua educazione vittoriana. Gli uomini come lui, quando subivano una delusione, erano stati educati a rifugiarsi nel silenzio e Scott, nella circostanza decisiva della sua esistenza, incoraggiato da quei luoghi inumani, dall'assurdità di un punto che, a differenza del suo opposto, non ha neanche una stella a calamitarlo su di un cielo triste, scelse il silenzio definitivo ed assoluto.

A chi legge il diario pare che non si più lui a scrivere, ma un personaggio che gli entra impercettibilmente nelle ossa più del ghiaccio, un personaggio che prepara un’uscita di scena onorevole, trasformando il fallimento in elegia, il secondo posto in un trionfo sentimentale.
Il ritorno di Scott e dei compagni diventa un percorso allucinatorio di cui il diario è un fedele ambasciatore. Scrivere non è più un modo per fermare il presente ancorandolo nelle rade del ricordo, ma un nobile espediente per sopravvivere nel futuro. Nei pressi del campo norvegese, con gli arti già aggrediti dal gelo, il capitano dovette vedersi come un anziano mutilato che avvolge le sue amputazioni nella Union Jack, costretto a tenere conferenze sulla propria umiliazione ad un ozioso pubblico per mantenere la famiglia o a pubblicizzare un libro di memorie per difendere la propria condotta. 
L'itinerario di Scott e quello di Amundsen. Dal sito www.windoweb.it

Dopo le foto di rito, foto tetre, accanto alla bandiera inglese, Scott scrisse di avere un solo pensiero: tornare alla base il prima possibile. Il 7 febbraio, tuttavia, concesse incongruamente a Wilson e Bowers una mezza giornata geologica per raccogliere fossili.
Con la delusione che brucia sottopelle più del gelo, la situazione precipita. La scelta di un uomo in più si rivela in tutto il suo azzardo quando cominciano a scarseggiare i viveri. Tra il 17 e il 18 febbraio muore il primo uomo della spedizione, Evans, scelto per la sua robustezza di militare che non era mai stato ammalato. Si spegne lentamente, inebetito da una commozione cerebrale rimediata due settimane prima nella caduta in un crepaccio.
Il freddo, lo scorbuto, la fatica, lo scoramento, si abbattono sui 4 superstiti come gelidi cavalieri dell’Apocalisse. Oates, il gigantesco Soldato, colui che non si arrende mai, ha un piede congelato e prega per la prima volta i compagni di lasciarlo  indietro, per non rallentare la loro marcia. È il 7 marzo e Amundsen, arrivato sulla terra ferma, sta telegrafando al mondo il suo successo.
Lawrance Oates
Il 16 marzo Oates, con gli arti incancreniti, è consapevole di essere spacciato e di rappresentare un ostacolo alle speranze degli altri. Guarda quei compagni muti che non hanno più la forza di incoraggiarlo in risposta alle sue  richieste di separarsi e tuttavia non lo abbandonano. Con grande fatica, durante una tempesta di neve, infila ai piedi gli scarponi ed esce dalla tenda salutando i compagni con il più commovente degli understatement: "Sto uscendo, può darsi che rimanga via un po' di tempo". Era il giorno del suo 32esimo compleanno e si trovava a 79° 28’ di latitudine sud ad oltre 17.000 Km da Londra. Nessuna primogenitura scandinava potrà togliere  a quelle distanze le stimmate dell'Inghilterra che il Soldato Oates lasciò assieme al suo corpo.
I tre superstiti procedono lentissimamente, ormai senza più cibo e combustibile per sciogliere la neve e dissetarsi. Il 21 marzo una tormenta li inchioda per giorni ad appena undici miglia dal deposito di One Ton che conteneva, appunto, una tonnellata di approvvigionamenti. In quelle condizioni di sfinimento, a 40 sotto zero, con lo scorbuto che li divorava, 11 miglia erano come 11 anni luce.
Scott presagisce la fine e affida lucidamente al diario lo slogan che lo avrebbe accompagnato alla fama: “Fossimo sopravvissuti avrei avuto per voi una racconto sull’ardimento, la resistenza e il coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni britannico». Senza più la forza di morire sulla pista, come avrebbero voluto, andarono incontro alla fine intorpiditi dalla febbre, sprofondando nella morte, come nel sonno. Il 29 marzo è verosimilmente l’ultimo giorno di vita di Scott. La pagina del diario riporta la frase: “Sembra un peccato, ma non credo di poter scrivere altro.” Poi affida la cura dei familiari all’amore di Dio, l’unico che al Polo Sud c’era stato prima di Amundsen.
L'ultima pagina
del diario di Scott
Quasi nove mesi dopo quel giorno una squadra di soccorso mandata incontro alla spedizione polare trovò la tenda e i tre cadaveri congelati. Nel groviglio della tempesta e dei sentimenti Scott aveva scelto di morire abbracciando l’amico Wilson. I soccorritori non poterono far altro che recuperare gli scritti, le pellicole fotografiche, i disegni, i fossili. Lasciarono cadere sui corpi la tenda, vi accumularono sopra un tumulo di neve e vi posero in cima degli sci messi in croce.
La notizia della morte di Scott commosse il mondo intero e oscurò come un inverno antartico l’impresa di Amundsen e delle sue slitte trainate dai cani. Quella che per Amundsen rimaneva una delle tante possibili maschere della gloria, un qualunque podio riservato ai competitori sportivi, per Scott si tramutò in elegante destino, in un posto nell’olimpo degli eroi dove a stento giunge l'eco delle timide domande dei sopravvissuti: era stato il mondo interiore del capitano a rendere possibile, per non dire necessaria, la tragedia? O forse, più semplicemente, il fato si imbuca in una delle porte da cui lo lasciamo entrare, tanto più che al Polo Sud non c’è bisogno di bussare? I diari di Scott, emendati dalla vedova e dagli amici dalle parti meno onorevoli, furono come programmato uno straziante best sellers sull’ardimento di questi cinque uomini e accesero a tal punto il mito del capitano che la madre di Oates, che aveva letto sul diario del figlio le lamentele sulla superficiale conduzione della spedizione, continuò invano a chiedere una inchiesta per appurare le responsabilità del disastro finale. 

I diari rimangono, tuttavia, una lettura di impatto. Ne sarebbe potuto venir fuori uno scritto furioso contro Dio, contro il “perfido Amundsen” che aveva invaso a tradimento il campo di gara inglese, contro la sorte. Lo scritto, invece, è pervaso di una calma piena di grazia, che assomiglia alle distese di ghiaccio sotto cui Scott e i suoi si trovano ancora sigillati, sotto le centinaia di chilometri di neve che in un secolo si sono accumulati sulla loro tenda, trascinandoli alla deriva al seguito dei movimenti del ghiaccio, fossili anche essi per i turisti degli anni duemila che giungono in Antartide a bordo di confortevoli crociere tutto compreso.

Roald Amundsen continuò a rivolgere i suoi febbrili interessi alle esplorazioni polari e legò il proprio nome anche alla conquista del polo nord. Il 18 giugno 1928 andò in soccorso dell’esploratore italiano Umberto Nobile che aveva avuto un incidente col suo dirigibile nel Mar Glaciale Artico. Nonostante i forti dissapori che erano intercorsi tra i due in passato, si imbarcò da solo su un idrovolante che non raggiunse mai Nobile e che non venne mai ritrovato. Partito per salvare un rivale, anche Amundsen morì da eroe tra i ghiacci polari e senza il conforto di una tomba su cui onorarlo. Questa volta, però, era lui ad essere arrivato secondo.



Fonti, rimandi, fanatismi, ispirazioni
http://scienza.panorama.it/Scott-Amundsen-sfida-d-altri-tempi
http://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Falcon_Scott#La_spedizione_Terra_Nova_.281910_-_1912.29
http://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Amundsen
I diari del polo di Robert Scott ed. Carte scoperte
Il volo del falco. La corsa al polo sud e il mito di Scott di J.A. Wainwright ed. Vivalda