giovedì 4 luglio 2013

All'ultimo secondo

Con il post del 4 luglio dedicato a Giusto Pio, chiudo il blog che mi ha accompagnato in questi due anni attraverso 26+1 (l'aggiunta è dovuta alla nascita mia secondogenita Bianca, non preventivata ) biografie di uomini e donne quasi illustri. Mi è piaciuto trattare dei secondi per la grande bellezza che, mi pare, possieda in sé questa approssimazione se paragonata all’assoluto rigore dei primi. Avevo altri nomi segnati o segnalati che "magari, chissà, alle volte, in futuro, sotto altre forme...".
 Nel ringraziare quanti mi hanno seguito li lascio qui per i rimpianti o i sospiri di sollievo:

Arturo Salieri
Powaqqatsy
Beppe Viola
Hendrik Antony Kramers
Didier Pironi
Raymond Poulidor
Astutillo Malgioglio
Juan Rodolfo Wilcock




Giusto Pio: se ne consiglia la lettura ad un volume basso.

A Phil di cui ero fan ed adesso sono amico.




Chissà a cosa pensava Franco Battiato nel 1993, quando chiuse una sua canzone identificando il diavolo in un violinista. Per circa 15 anni, infatti, discreto e geniale, come suo braccio destro aveva avuto un maestro di violino che nell’incredibile nome di Giusto Pio custodiva ben altre appartenenze.

Nato nel 1926 nel cattolicissimo Veneto, giovanissima staffetta nella formazione patriottica di Tina Anselmi, studente di violino per ripiego (il pianoforte costava troppo), il luogo più malfamato che Pio aveva frequentato per decenni era stato l’orchestra della RAI, dove lavorava come violino di concertino, ovvero  vice primo violino. Almeno fin quando il diavolo ci mise la coda per davvero, segnatamente quella del pianoforte di Antonio Ballista, musicista amico di Franco Battiato. Ballista pregò il maestro Pio di accogliere il giovane e promettente compositore siciliano come suo allievo. Era il 1978 e prima di allora per il violinista veneto il pop era stato solo un’occasione per guadagnare soldi come turnista in sala d’incisione. Per il resto la musica leggera era severamente bandita da casa Pio, almeno in presenza del capofamiglia. Di fronte alle insistenze del collega Ballista, Giusto Pio tentenna, poi, spinto dai figli e dai loro ascolti carbonari del Battiato sperimentale, accetta di ricevere l’allievo esclusivamente le domeniche pomeriggio di cattivo tempo. Battiato si presenta a casa Pio con puntualità irritante, anche quando il tempo è buono e nel rapporto tra allievo e maestro i due scoprono insospettabili affinità. Li lega un’insofferenza per la cultura aulica e paludata dove la mancata soggezione di Battiato per l’ordine culturale costituito trova sponda nell’intolleranza di Pio per le tirannie dei direttori di orchestra sugli orchestrali, servi della gleba in catene sul terreno della musica colta, di cui solo il direttore è in grado di gustare i frutti. Dirà in un’intervista: “Sulla musica classica pesano certe imposizioni secondo le quali Brahms va eseguito in quel solo modo, Mozart esige quel vibrato. Pesa insomma la rigidità degli schemi che si applicano all’interpretazione.” E le esigenze tecniche dell’interpretazione otturano il canale comunicativo del suono, per cui il pubblico della classica più che ascoltare la musica ascolta l’esecuzione della musica.
Per Pio è insopportabile che ci siano dei supponenti ad esercitare l’arte del comando, mentre ai peones in smoking non resta che ubbidire anche di fronte alle cialtronerie. L’anti accademismo di Franco Battiato, quindi, è per Giusto Pio una sorte di lasciapassare che lo libera dalle corvée orchestrali e lacera finalmente il diaframma tra esecutore e pubblico. I due iniziano una collaborazione che si consuma all’inizio nei circuiti musicali alternativi. Il set scenico prevedeva delle improvvisazioni con Battiato seduto a terra e Giusto Pio a suonare il violino sopra la sua testa, spesse volte con performance strazianti di cui i più coraggiosi possono ascoltare dei saggi nell’album “Juke Box”. Anche Pio edita un suo primo lavoro su LP. Il titolo, “Motore immobile”, riflette lo spirito religioso del maestro e, nella dicitura "si consiglia l'ascolto a volume basso", ne rivela anche l'indole umana.

La svolta che darà inizio ad una delle più originali avventure del pop italiano avviene un giorno, a tavola, quando Battiato propone al maestro di scrivere canzoni, affrontando il giudizio del mercato. E sul mercato, fino ad allora, il cantautorato italiano aveva sovente pagato con falsa moneta. Sotto la patina dorata dei testi, infatti, partiture, schemi e regole musicali occultavano regolarmente il marchio di conio del jazz, oltre ad una certa povertà armonica. Battiato e Pio, come autori di musiche ed arrangiamenti, cominceranno a lavorare valorizzando proprio le parti armoniche. I primi esperimenti di un certo successo riguardano Alice per cui confezionano “Il vento caldo dell’estate” una canzone che si fa beffa anche dei canoni del pop, poiché il ritornello manca totalmente della parte ritmica, sostituito da accordi di organo. E con la dissacrazione che sarà il marchio di fabbrica di quegli anni, sempre per Alice firmano il successo Sanremese di “Per Elisa”, brano di aggressiva anti melodia, allusiva per contrasto alla placida soavità Beethoveniana. Nel frattempo anche i primi album pop di Battiato destano l’interesse del grande pubblico. All’inizio degli anni ’80, tuttavia, Giusto Pio si divide ancora tra i concerti del venerdì sera nella Sala del Conservato­rio, in abito scuro a code, e quelli delle tournée con Battiato affrontate con l'abbigliamento di un impiegato del catasto e il sorriso enigmatico tipico della sua espressione. Il successo travolgente arriva all’improvviso e senza gradualità. I palasport si riempiono e la curiosità di molti si appunta su questo signore di mezza età (19 anni lo dividono da Battiato) che suona il violino in mezzo a giovani patrioti di una musica nuova, che fonde oriente e mitteleuropa, Wagner e i muezzin, i Balcani e il Mediterraneo, senza dare punti di riferimento all’ascoltatore, travolto da prostitute libiche, gesuiti euclidei e meccaniche celesti perfettamente incastrate su sonorità inaudite. Il neo pensionato dell’orchestra RAI Giusto Pio, a quasi 60 anni, diventa una specie di imperturbabile rock star in golfino e pantaloni di panno. Nel giro di pochi anni Battiato e Pio fanno musicalmente scuola con arrangiamenti accattivanti che introducono nelle canzonette voci megafonate, cori lirici, campionamenti e risonanze della musica classica, potendo anche giovarsi di straordinarie interpreti come Giuni Russo e Milva per le loro arditezze sonore. Pio, che ha una presenza scenica alla Buster Keaton e l'aria di chi è capitato lì per caso, appare anche negli stralunati video musicali del tempo come un alter ego compassato dello stesso Battiato. Il successo travolgente dell’album “La voce del padrone” lo porta ad uscire allo scoperto in prima persona con “Legione straniera” un disco strumentale di musica pop. Dice:  “L’aver lavorato con Franco in maniera netta e senza preconcetti mi fece vedere il pop sotto un’altra luce. […] Si lavorava privi di paraocchi e steccati. Questa fu la grande lezione di Franco, capii che alcuni brani di – chessò – Paul McCartney non avevano nulla da invidiare a Schumann, ad esempio.” Il disco, zeppo di esotismo e trainato dalla magia aliena del singolo, finì addirittura in classifica e in TV dove qualcuno, a causa di una innegabile somiglianza, confuse Pio con Enzo Biagi che ostentava una fino ad allora occulta passione per il violino.

Il maestro di Castelfranco Veneto accompagnò nel corso degli anni ’80 tutta la carriera di Battiato come coautore delle musiche, contribuendo anche al suo successo internazionale e diventando, col tastierista Filippo Destrieri, un inconfondibile marchio del suono Battiato. Nel 1989 Pio, grande ammiratore di Giovanni Paolo II, convince il musicista ad accettare l'invito a suonare alla Sala Nervi al cospetto del Papa. Il cantate siciliano si presentò in tenuta nera, mentre Pio, con il suo maglioncino, era tutto vestito di bianco, in un involontario quanto rivelatore Yin e Yang Vaticano.
A partire dagli anni ‘90 Giusto Pio si congeda da Battiato col suo stile, cominciando a diradare le collaborazioni. “Mi sono fatto troppo vecchio – dirà – non voglio essere un peso e voglio lasciare un buon ricordo.” E come promemoria aveva liberato dalle corde del suo violino un ultimo capolavoro di transizione tra il pop e l’avanguardia: “Note” un album sospeso tra severità e tenerezza, pieno di intimismi e crepuscoli, ripiegato sull’infanzia dei nipotini, sui ricordi avventurosi del Capitano Nemo e sulle visite di arcane presenze. Per Battiato, con cui ancora oggi si danno del lei, avrà parole di gratitudine ed affetto: “Franco mi è figlio e padre, amico e fratello è parte di me e la migliore.”

Nelle opere di una fertilissima maturità Giusto Pio darà voce ai martiri di Piazza Tienammen (ma per pudore preferì farsi suggerire da Battiato un titolo estraneo ai fatti: “Attraverso i cieli”) e creerà una messa di popolo in onore di papa Wojtyla in cui trovano spazio il suono delle pulsar, le voci della NASA, il tifo della nazionale, il martello pneumatico, la risonanza magnetica. Finalmente può dedicare un po’ del suo tempo anche alla moglie Maria con cui è sposato da più di 60 anni e che chiama “la mia ragazza”, sentendosi in Paradiso quando le stringe la mano sul divano, alla sera, davanti alla TV. Creativamente inarrestabile compone nella sua casa di Castelfranco Veneto non più per il mercato, ma in occasione di installazioni pittoriche o ispirato dall'attualità o dai suoi monti, oltre a dedicarsi alla pittura astratta. Nell’ultima intervista concessa in occasione del suo 85esimo compleanno si è detto stupito per l’affetto che lo circonda e di fronte alle insistenze dell’intervistatore ha affermato “C’è gente che salva delle vite ogni giorno, quelli dovrebbero avere dimostrazioni di affetto, di quelli bisognerebbe parlare sempre. Invece si parla solo di quattro canzoni”. Siamo d’accordo, ma se di quelle quattro canzoni, tuttavia, si volesse comprendere qualcosa, si sappia che Giusto Pio è una figura chiave, fosse anche solo quella di violino.


Fonti, rimandi, ispirazione e fanatismi:
Il sito ufficiale
Il video di Legione straniera
Al violino con Battiato -1
Al violino con Battiato -2
Giusto Pio parla della moglie
Dedicato a Giusto Pio a cura di A. Zanellato e M. Sernaggiotto ed Danilo Zanetti.

domenica 2 giugno 2013

Lise Meitner: una scienziata che non ha perso la propria umanità.

I giornali sono soliti mentire con lealtà. Nel caso di Lise Meitner, però, ci aggiunsero una buona dose di idiozia. Come quel quotidiano berlinese che nel 1926 incappò in uno spettacolare refuso riferendo che  “l'Esimia Professoressa Meitner ha inaugurato l’anno accademico con una lezione di fisica cosmetica». 
Si trattava, ovviamente, di fisica cosmologica, ma lo svarione aderiva perfettamente al pensiero di quasi tutto il mondo contemporaneo e sicuramente di tutto il mondo della ricerca scientifica che considerava una donna in laboratorio opportuna come una bestemmia in chiesa. Lise Meitner, tuttavia, accoppiava ad una solida passione per la fisica e la chimica anche la giusta umiltà e determinazione. L’incarico di professore (la prima di sesso femminile in Germania) giungeva dopo anni di devozione alla causa scientifica. Nata a Vienna nel 1878 da una famiglia ebrea non praticante e convertita al protestantesimo che la educò con liberalità, Lise fu subito attratta da un mondo, quello della ricerca, precluso alle donne. Sostenne da esterna gli esami di liceo (la cui frequenza era proibita alle ragazze) e si iscrisse all’Università di Vienna, dove ebbe come insegnante Ludwig Boltzmann che la affascinò con le sue complessità di scienziato anticonformista e rigoroso, col pensiero assediato da una cupa malinconia per l'esistenza umana, messa di fronte ai propri limiti nei confronti dell'infinitezza della conoscenza. L'interesse principale della giovane Meitner in quegli anni era la radioattività, che all’epoca appariva una moderna forma di alchimia in mano agli scienziati. Su raccomandazione di Boltzmann si trasferì a Berlino dove le donne non erano ammesse all’Università. Sarà Max Planck a fare eccezione per il suo talento. A Berlino ha inizio un sodalizio professionale con Otto Hahn, suo coetaneo e uno dei maggiori chimici del Novecento. Il loro rapporto durerà per i seguenti 60 anni e sarà più difficile da descrivere delle orbite tracciate dagli elettroni su un nucleo atomico. Per la Meitner fu, probabilmente, un amore addomesticato in un’amicizia carica di affetto. La loro collaborazione scientifica si consumò per intero in laboratorio, senza mai nemmeno una passeggiata o una cena fuori, ma la loro relazione fu anche un intreccio di franchezza, passioni comuni, durissimo lavoro, ambizioni, meschinità, gesti grandiosi e sensi di colpa.

Il lavoro con Hahn si svolge a partire dal 1907 nei sotterranei dell’istituto  di chimica.
Lise entra dalla porta riservata ai bidelli e va in bagno nel ristorante di fronte, poiché l’istituto ha i servizi solo per gli uomini. Solo nel 1912, dopo una lotta con l’amministrazione universitaria, Hahn riesce a farle ottenere uno stipendio. La comunità scientifica comincia a parlare di lei. Einstein la descrive come “la nostra Madame Curie” e la stessa scienziata francese ne apprezza i lavori. Alla fine della prima guerra mondiale Hahn e la Meitner consacrano le loro ricerche scoprendo un nuovo elemento chimico, chiamato protoattinio. Lise procede di successo in successo fino alla nomina di professoressa di fisica nucleare sperimentale all’università di Berlino. Gli anni ’30 la vedono in prima linea con i maggiori fisici del mondo (il gruppo romano di Via Panisperna capeggiato da Fermi e quello parigino dei coniugi Joliot – Curie) per spiegare il comportamento di alcune sostanze radioattive che si formano colpendo i nuclei di atomi con protoni e neutroni. In pratica i maggiori fisici del mondo danzavano incessantemente attorno al totem degli elementi transuranici. Erano convinti che questo bombardamento sui nuclei di uranio dovesse dare vita ad elementi più pesanti dell’uranio, nati dall’incorporazione dei neutroni. Il problema era che dalle analisi chimiche, ciò che si formava dal bombardamento, era lontanissimo dal comportarsi come un elemento transuranico. 
È su questo che lavorano anche Otto Hahn e Lise Meitner mentre la Germania cade nel sonno di piombo del  nazionalsocialismo e poi nell’incubo delle persecuzioni agli ebrei. Nonostante per Lise essere ebrea significasse soltanto una casella sbarrata nel certificato di nascita, le viene proibito di insegnare a partire dal 1933. Hahn, che era un oppositore del nazismo, minaccia le dimissioni da professore in segno di solidarietà ai colleghi ebrei, ma poi si reca quotidianamente in laboratorio, dove lo chiamano la passione e l’ambizione per un Nobel che sente vicino. Anche Lise, confidando nella sua cittadinanza austriaca, decide di rimanere a Berlino, pur priva di titoli accademici, come se la storia che coinvolgeva drammaticamente altri uomini e altri colleghi fosse un fastidioso rumore di sottofondo nell'inaccessibilità del suo laboratorio. Anche lei sente che è vicino il premio Nobel a coronamento della propria carriera. Quando nel 1938 l’Austria viene annessa al Reich, Lise diviene cittadina tedesca, con la concreta possibilità di  essere internata in un lager. La salveranno alcuni colleghi olandesi, organizzandole una fuga in Svezia attraverso i Paesi Bassi. Al momento di partire Hahn le regala l’anello di diamanti della madre, per corrompere la polizia nel caso fosse fermata alla frontiera. 
La fuga ha successo, ma all’istituto Nobel di Stoccolma che la ospita, la nuova arrivata non riceverà una buona accoglienza dal direttore, che non tollera donne intorno a sé. La Meitner in quegli anni lavora come può, senza laboratori e strumenti, ma continuando a corrispondere con Hanh che prosegue le ricerche col giovane chimico Fritz Strassmann, anch’egli oppositore del regime nazista. Nel Natale del 1938 Lise riceve una lettera da un sempre più perplesso Otto, disperato dall'incomprensibilità dei risultati di laboratorio. Bombardando l’uranio con neutroni lenti, anziché trovare elementi transuranici, lui e Strassmann hanno riconosciuto elementi radioattivi del bario, un elemento molto più piccolo dell’uranio.
La Meitner legge la lettera durante una passeggiata per i boschi insieme al nipote Otto Frisch, anch’egli chimico, impiegato in Danimarca e che era venuto a trovarla per le vacanze di Natale. Si racconta che i due siano stati sorpresi da una nevicata durante la quale Lise nota un fiocco di neve che si sdoppiava. Come per la mela di Newton, ogni qual volta cade un velo alla natura delle cose, preferiamo raccontarlo come un volontario strep-tease piuttosto che come uno stupro. Ispirata da questa visione la Meitner comprende, esclusivamente per via teorica, che il nucleo di uranio sottoposto a bombardamento si era rotto e che durante il processo, che chiama fissione, una parte della sua massa si è trasformata in energia secondo la nota equivalenza di Einstein. Comunica per lettera le sue conclusioni alla rivista Nature che le pubblica nel febbraio 1939 generando grandi manate sulle migliori fronti del secolo ventesimo, sbalordite per non esserci arrivate per prime. Otto Hahn e Fritz Strassmann pubblicano quasi contemporaneamente una descrizione dell’esperimento e, di fronte allo scalpore che ne segue, Hahn insiste per minimizzare il ruolo della Meitner. In un certo senso il suo era un comportamento obbligato. Non poteva dichiarare di aver tenuto nascosto agli scienziati nazisti la propria scoperta e di avere chiesto lumi ad una collega ebrea in esilio. Proprio per non compromettere il collega, anche Lise si astiene dal divulgare le lettere in cui Hahn le chiede aiuto per interpretare il fenomeno. La strada per l’ordigno a fissione nucleare è ormai segnata. Oppenheimer, nel 1943, vorrebbe coinvolgere Lise nel progetto Manhattan, ottenendo un deciso rifiuto: "non voglio avere niente a che fare con una bomba". Nel cuore di una notte di estate boreale del 1945, una telefonata comunica a Lise Meitner che il suo fiocco di neve è esploso su Hiroshima devastandola. La stessa notizia sconvolge Otto Hahn, catturato dagli alleati e recluso con altri scienziati a Cambridge, dove lo raggiunge anche la notizia dell’attribuzione del premio Nobel per la chimica. A guerra finita, nel dicembre 1946, alla premiazione per il Nobel, Otto Hahn non nomina neppure la collega con cui ha diviso per 30 anni il laboratorio. L'ormai settantenne Meitner ripeterà sempre che il collega ha meritato il premio. In una famosa lettera privata, invece, non gli risparmia la propria franchezza per l'atteggiamento di compromissione con il nazional - socialismo, un rimprovero che, in fondo, rivolgeva anche a sé stessa per i suoi anni berlinesi da ebrea austriaca:  «Avete lavorato tutti quanti per la Germania nazista, per placarvi la coscienza avete aiutato qua e là un perseguitato, ma avete lasciato che milioni di esseri umani fossero assassinati senza la minima protesta.»

In quello stesso 1946 è invitata ad una serie di conferenze negli Stati Uniti. La rivista Time la nomina donna dell'anno, altri giornali la presentano assurdamente come “Madre della bomba atomica” o, addirittura, come la donna che ha lasciato la Germania con la bomba nella borsetta. Frastornata da questo clamore, Lise che aveva consumato la sua vita tra una disciplina di tipo orientale e la poesia della rinuncia, sembra recedere dal suo personaggio rigoroso e mostra, in una lettera alla sorella da anni emigrata negli Stati Uniti, la propria tenerissima preoccupazione per gli abiti da indossare per l'occasione. Dagli anni '50 Lise Meitner si dedica esclusivamente a sostenere la causa delle donne nella scienza e nelle posizioni di responsabilità. Disse: “Io amo la fisica, tanto da non poter immaginare la mia vita senza di essa. E’ come una specie d’amore verso qualcosa o qualcuno a cui si deve molto. Ed io che spesso scopro di avere dei rimorsi di coscienza, sono un fisico senza nessuna cattiva coscienza”. Nel 1966 il premio Fermi viene attribuito a Lise Meitner, Otto Hahn e Fritz Strassmann, ricomponendo la fissione di trenta anni prima. Dal dopoguerra Lise Meitner continuerà a corrispondere affettuosamente con Otto Hahn fino alla morte di lui, nel luglio del 1968, di cui non venne informata. Lise lo seguirà appena tre mesi dopo, a novanta anni: un ultimo fiocco di neve che si sdoppia.



Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
La biografia dell'enciclopedia delle donne
La pagina di wikipedia
La lettera integrale di Lise Meitner ad Otto Hahn
La forza nell'atomo. La vera vita di Lise Meitner di Simona Cerrato e Anna Curti. Ed. Editoriale Scienza

mercoledì 24 aprile 2013

Per chi tifavi a Berlino est?



“Si puo' divorziare, cambiare lavoro, la casa, il luogo in cui si vive, ma non si può cambiare l'amore verso la propria squadra di calcio, che da piccolo ti entra nella vita e ne diventa parte integrante e fondamentale.”
Questo lo scriveva Nick Hornby e, a partire dagli anni ’80, lo sottoscrivevano diversi miei concittadini che, a prezzo di anelli restituiti e contratti stracciati, si presentavano al Club Mediterranée "più a sud di Tunisi, ma in Sicilia", per vestire la maglietta con la scritta STAFF. Era un orda di autoctoni in caccia sotto le mentite spoglie di bagnini, operai od istruttori che, con ossessione brancatiana e concretezza landobuzzanchiana, circondavano fino alla resa il cuore di turiste germaniche e cisalpine. Tanto che ancora oggi, in tempi di mobilità umana in prevalenza carpatica e mediterranea, nella mia provincia, la comunità femminile di nazionalità tedesca rimane una delle più numerose.

Il preambolo per confessare che anche io ho perso la testa per una tedesca.
Mia moglie (ove mai leggesse) può stare tranquilla. Nick Hornby un po’ meno. La tedesca in questione è la squadra di calcio dell’Union Berlino, che a me ha rubato il cuore e a voi (ove mai leggeste) una decina di minuti. L’Union Berlino è oggi la seconda squadra della capitale, dietro la più famosa Herta, ma fino al 1989, nella Berlino dell’ortodossia socialista, ha vissuto alle spalle della Dinamo. Mentre scrivo, la squadra milita in Zweite Bundesliga, la serie B tedesca, dove occupa una riparata posizione di metà classifica. Il culto dell’Union Berlino, club nato nel 1906, si rafforza sotterraneamente nel corso dei decenni e si caratterizza per il modo anticonvenzionale di incardinare la passione calcistica sul telaio dell’identità locale, dell’appartenenza, dei rituali e della tradizione, costruendoli e riassemblandoli in modo aperto, libero e poco gerarchizzato. In questa originale grammatica del linguaggio del tifo, che da elemento satellitare e coreografico diviene immagine sostanziale del club e suo imprescindibile capitale, la vittoria è solo un gradito optional, contando molto di più i sentimenti e le relazioni. A partire da quelle stabilite con lo stadio, una componente unica del fascino dell’Union. I berlinesi, infatti, giocano in un impianto dal nome più bello del mondo: An der Alten Försterei ovvero  "La vecchia casa dei guardaboschi". Sembra un titolo rubato a una poesia di Montale, ma semmai è vero il contrario perché l’Alten Försterei è la tana dell’Union fin dal 1920. Costruito  in mezzo alla foresta di Köpenick, in quello che fu un punto di incontro per i critici del regime socialista, in ogni tempo varcare la soglia di quel posto di guardia ha significato entrare in un piccolo club di fedeltà, appartenenza e storie debitamente cazzute, anche se mai benedette dalla vittoria (la vogliamo chiamare vittoria l’unica coppa di lega della Germania dell’est vinta dai nostri  nel 1963? No, chiamiamola una variazione di gamma nel dominante grigio DDR della Germania divisa).

Nei primi anni della sua storia l’Union Berlino si afferma come squadra del quartiere operaio con un tifo di sinistra temprato nelle officine siderurgiche, che valse al club il soprannome di Eisern (ferrei) e che portò i calciatori ad indossare per qualche tempo magliette blu (i colori sociali sono da sempre il bianco e il rosso), in onore del colore della divisa dei tanti operai che tifavano per loro. Nella Berlino del muro, invece, l’Union ha rappresentato l’alternativa all’omologazione socialista. A supportarla allo stadio andavano anche quelli che non si interessavano al calcio, se non altro per aspettare il momento delle punizioni, quando di fronte alla barriera schierata dagli avversari, poteva partire l'invito al centravanti e alla storia a calciare forte: "Die Mauer muss weg" (il muro deve cadere). In quegli anni l’Union ingaggiò una lotta sportiva e politica contro la Dinamo Berlino, la squadra della STASI, le cui cupe strategie orwelliane si applicavano anche ai campionati nazionali dove la Dinamo sottraeva i maggiori talenti ai rivali e arrivava a vincere in tutti i modi possibili anche 10 campionati di fila. Ad ogni derby alla Casa dei guardaboschi o ad ogni incontro importante della Dinamo, i tifosi dell’Union non mancavano, con perfetto stile Eisern, di inneggiare ai berlinesi dell’ovest dell’Herta o di cantare cori allusivi nei confronti delle autorità politiche. Quasi sempre sconfitti sul campo, cospargevano di fiele gli orli di ogni coppa vinta dai rivali, mostravano loro la lingua nelle foto ricordo per gli almanacchi. E non si deve pensare solo ad un antagonismo casereccio e rozzo, fatto di salsiccia, birre e qualche arguzia, ma anche ad una grande energia contrapposta all’apatia di un regime che aveva eretto la paranoia e l’ossessione del controllo come sistema di vita. Nacquero così, all’interno del tifo Union, delle frange punk che rappresentavano una vigorosa forma di resistenza all’impostazione normativa della Germania orientale. Sono geni sopravvissuti nel DNA della squadra, basti pensare che l’inno degli Eisern è cantato dall’icona punk tedesca Nina Hagen, con tanto di beffeggiante citazione musicale dell’inno sovietico (immaginate come debba sentirsi chi, da anni, ad altre latitudini, in altre capitali, si arrangia con Venditti e gli Oliver Onions).
Poi, in un giorno di novembre del 1989, la barriera a difesa del comunismo si sbriciolò senza bisogno di tiri alla Roberto Carlos e divenne un puzzle per collezionisti di souvenir. Il mercato libero e la rivoluzione pacifica della Germania unita investirono con incontrollabile velocità anche i campionati di calcio. In pochi anni la Dinamo Berlino, privata dei suoi appoggi, scomparve nelle serie minori, mentre allo stadio dell’Union viene conservato ancora il tabellone ligneo che ricorda il punteggio dell’ultimo incontro tra i 2 club, con gli ex pupilli della STASI messi sotto torchio per 8 a 0 dagli Eisern. Nella Berlino unita, la squadra ha conservato una parte attiva nell’immensa vivacità culturale della città. I risultati sul campo non sono mancati, come nel 2001 quando l'Union, pur giocando in Regionalliga (allora corrispondente alla Serie C1), giunse in finale di Coppa di Germania, perdendola poi 2-0 contro lo Schalke e disputando l'anno successivo due turni di Coppa Uefa. La fuoriuscita degli Eisern dalle serie minori è stata, però, rallentata da periodiche crisi economiche a cui i fan hanno risposto anche donando il sangue per reperire fondi. Il problema principale era l'agibilità del vecchio stadio, ormai inadeguato, ma che rappresentava pur sempre un pezzo di storia calcistica nazionale. Nel 2007, dopo mesi di promesse non mantenute dal comune di Berlino, i tifosi decisero di  restaurare in autonomia l'An der Alten Försterei. Nei fine settimana o durante le ferie si presentarono in 900 tra muratori, carpentieri ed elettricisti. Moltissimi altri si impegnarono a lasciare offerte in denaro o a provvedere al ristoro dei tifosi lavoratori. Lo stadio messo a nuovo dai fan a costo zero venne inaugurato con un derby con l’Herta e tutti i lavoratori, ricordati con una stele per il loro impegno, si fecero un punto d’onore nel pagare il biglietto d’ingresso. Dopo pochi anni l’Union venne promosso in seconda serie, ma per disputare il campionato si rendeva necessario un'ulteriore messa a norma dell'impianto. E mentre in Italia lo slogan destinato a salvare il mondo del pallone recita: “stadio di proprietà dei club”, a Berlino quelli dell’Union si sono inventati lo stadio di proprietà dei tifosi. In altre parole la società ha messo in vendita le quote di possesso dello stadio secondo un principio democratico che impedisce speculazioni ed accumuli nelle mani dei singoli. Tra le nuove funzionalità dell'impianto ci sono una caffetteria, dove il giovedì è possibile incontrare i giocatori, una nuova tribuna e spazi dedicati ai tifosi per il fan club, i bar e il merchandising. Il numero di posti a sedere, tuttavia, rimane il minimo indispensabile per l’omologazione, perché il tifo, che continua ad essere disorganizzato, senza cori specifici e capi ultras, lo si pratica rigorosamente in piedi sulle tribune. L’offerta delle azioni ai tifosi è stata pubblicizzata con cartelloni per tutta la città che ritraevano i diavoli del mondo del calcio (tra cui Blatter e l’immancabile Berlusconi), e con uno slogan d’effetto: “L’FC Union vende la sua anima. Ai tifosi”.

E la tesi che tifare Union sia un rito che chiunque può officiare è dimostrata da una recente iniziativa spontanea che regala un supplemento d’anima all'intera città: nel 2002, dopo una sconfitta all’ultima giornata di campionato prima della pausa invernale, un gruppo di 89 tifosi pensò di incontrarsi clandestinamente allo stadio per augurarsi buon Natale con una birra e delle canzoni. Da quella data è diventata una tradizione autogestita dai berlinesi, anche tifosi di altre squadre, incontrarsi alla vigilia di Natale all’ An Der Alten Försterei per cantare tutti insieme canti natalizi. Lo scorso 24 dicembre si contavano più di 22.000 persone munite di candele e libretto dei canti e la manifestazione è durata 90 minuti.
Nel coro di no al calcio moderno che riempie le curve di buona parte di Europa, la proprietà dell’Union Berlino ha trovato una soluzione di grande intelligenza, conciliante tra le esigenze economico-finanziarie e quelle di intendere il calcio come passione dei propri tifosi. Esattamente il contrario dell’antagonismo neanderthaliano della cultura ultras dei nostri stadi, che reagendo ad un'epoca se ne distacca con rabbie nevrotiche ed esclusive. Non so se questa soluzione porterà l'Union Berlino a qualche vittoria, ma l'amichevole collaborazione fra tutela della tradizione, identità del club e stato di salute della casse societarie è la dimostrazione di qualcosa che a Berlino conoscono molto bene e sulla propria pelle: i muri possono cadere.

Sono grato a Stefano, impagabile amico romano berlinese. In attesa di trovare un accordo anche su quale sia la seconda squadra della capitale italiana.




giovedì 28 marzo 2013

Lunatici, ma allegri: i ragazzi dell'Apollo 12



Quando il dito indica la luna, siate saggi e mettetegli di fronte un dizionario etimologico aperto alla parola consolazione. Scoprirete che deriva dal termine latino solatium da cui si ricava anche l’odierno vocabolo sollazzo. Di questa affinità linguistica tra il conforto e il divertimento, gli astronauti dell’Apollo 12 non ne sapevano nulla, ma come Accademici della Crusca in incognito si recarono sulla Luna dimostrando punto per punto l’analogia.
Essere la seconda missione lanciata verso il regno di Selene aveva degli innegabili svantaggi: la Storia era già passata 4 mesi prima da lì con un grande balzo per tutta l'umanità, portandosene via l’entusiasmo: l'attenzione era ora rivolta alle proteste giovanili e alle imponenti manifestazioni contro la guerra in Vietnam; la Luna era una preda nel carniere della postmodernità che non interessava già quasi più nulla a nessuno. Nel crollo delle illusioni, Apollo 12 portava con sé un sentimento di malinconia post coitale di cui era responsabile anche l’orgasmica impresa dei predecessori. Di fronte alla caduta degli dei del cosmo, ai tre astronauti non rimaneva che vivere un’esperienza unica senza dover rispondere di aspettative planetarie. Con disciplina e serietà, come imponeva il loro lavoro; e consolandosi del destino che li aveva relegati a secondi, alleggerendo la gravità delle procedure con una buona dose di divertimento.
L’avvio, in verità, fu tutt’altro che spassoso. L’Apollo 12 partì nella notte del 14 novembre del 1969 durante un terribile temporale. Il razzo vettore fu colpito da due fulmini che resero l’interno della navicella simile ad un albero di Natale di luci colorate ad intermittenza lanciato verso lo spazio siderale. Grazie alla prontezza di un tecnico venticinquenne che ad Houston si ricordò cosa fare in casi del genere, il viaggio proseguì tranquillamente. Cinque giorni dopo i due astronauti Charles "Pete" Conrad e Alan Bean allunarono nell’Oceano delle Tempeste, con l’obiettivo di effettuare una dettagliata esplorazione scientifica lunare e di recuperare le parti del veicolo spaziale Surveyor III, che giacevano nei dintorni dal 1967. Tutto si svolse regolarmente, se si esclude l’incidente alla telecamera usata per le riprese televisive che Bean rivolse inavvertitamente contro il sole, interrompendo quasi subito la diretta TV. Schiacciata tra la gloria di Apollo 11 e il pathos di Apollo 13, la missione Apollo 12 potrebbe essere facilmente dimenticata se non fosse per l'umanità dell'equpaggio. Dick Gordon, Pete Conrad e Alan Bean erano tre anime gemelle in un ambiente competitivo e ben lontano da quell'immagine di cameratesca banda di eroici boy scout che riviste come LIFE o la stessa NASA tendevano a presentare.
Dick Gordon è il prototipo dell’astronauta sfortunato. Fra lui e il comandante di missione Conrad si era stabilito un rapporto di saldissima amicizia. I due erano compagni di stanza durante la carriera militare e si trovarono assieme anche durante la missione Gemini 11, in cui Gordon fu uno dei primi americani a passeggiare nello spazio e anche il primo a rischiare seriamente di perdervi la vita. Fu solo grazie alla prontezza di Conrad che Gordon, quasi privo di sensi per la fatica del lavoro in assenza di gravità, venne sottratto al nero vuoto dello spazio e riportato all'interno della navicella. Proprio per la sua esperienza gli venne affidato il compito più importante delle missioni Apollo: garantire il rientro a casa dei compagni, restandosene a girare intorno alla Luna dopo aver viaggiato per oltre 300.000 chilometri, attendendo che gli altri facessero ritorno dall'esplorazione. Questo comportava anche un passaggio di circa mezz’ora sul lato oscuro del satellite, irraggiungibile dalle comunicazioni, nella solitudine che prima di lui fu solo di Adamo. Gordon avrebbe dovuto compiere i fatidici ultimi 100 chilometri con Apollo 17, ma dietro insistenze del mondo scientifico fu sostituito dal geologo Henri Schmitt. Nella spietata gerarchia commerciale che è seguita al programma Apollo, i piloti che non hanno camminato sulla Luna hanno un valore infinitamente minore. E così Gordon ha dovuto lavorare per vivere. È stato presidente di una squadra di football e si è poi dedicato alle esplorazioni petrolifere, accontentandosi di firmare autografi a pochi dollari nelle convention di appassionati di fantascienza, più attratti da eroi spaziali di fiction che da uno dei soli 24 uomini al mondo che ha compiuto il viaggio dalla Terra alla Luna.

La lapide di Pete Conrad è un monolite nero. Oltre al nome e alle date porta incise le parole “An original”. E Pete Conrad era davvero un tipo originale a partire da una fisicità incongrua rispetto all’immaginario dei  cowboy spaziali: basso di statura, quasi calvo e con un consistente vuoto cosmico tra gli incisivi superiori. Soffriva di dislessia e gli insegnanti lo avevano catalogato come uno studente svogliato e al limite della deficienza. La madre lo iscrisse ad una scuola speciale che ne mise in luce la brillantezza intellettuale e gli consentì di laurearsi a Princeton. La sua carriera aviatoria si scontrò con la contraerea dell'inconscio freudiano. Alla prima selezione per diventare astronauta, poco convinto dell'utilità dei test psicologici, Conrad si divertì a prendere in giro i medici. Mentre lo sottoponevano al test delle macchie di Rorschach indugiava a descrivere rapporti sessuali con dettagli sempre più licenziosi. Giunti all’ultima immagine avvisò lo psicologo: “Questa immagine è messa a testa in giù!”
Era, tuttavia, un pilota provetto e, quando gli Stati Uniti allentarono le pretese psicologiche sui suoi uomini, entrò di diritto nella squadra degli astronauti. Contrariamente ad Armstrong che si era portato la maestosa Sinfonia "Dal Nuovo Mondo"di Antonin Dvorak, il comandante di Apollo 12 decise di galleggiare in assenza di gravità al ritmo degli Archies, una band fittizia protagonista di un cartone animato, come se stesse accompagnando i suoi uomini ad un festoso party a base di frullati alla frutta. Conrad pilotò manualmente il modulo lunare portandolo ad appena 183 metri dai resti del Surveyor III, facendo sembrare l’allunaggio un gioco da ragazzi.
Quando fu pronto ad uscire sul suolo lunare si ricordò di vincere una scommessa con la giornalista Oriana Fallaci che seguiva per il Corriere della Sera il programma Apollo. La Fallaci sospettava che la NASA preparasse a tavolino le frasi che gli astronauti dovevano dire al momento dell’allunaggio e manifestò questo sospetto al comandate. Misero una posta di 500 dollari e concordarono lì per lì le parole che Conrad avrebbe detto. E così, riferendosi alla sua bassa statura e parodiando la frase del secolo di Neil Armstrong, le parole del terzo uomo sulla Luna furono: “Whoopie! Sarà stato un piccolo passo per Neil, ma per me è davvero lungo.”
Il divertimento non finì lì. Ad un certo punto della missione Conrad e il collega Bean cominciarono a ridere a crepapelle.  Il libro "Luna? Sì ci siamo andati" di Paolo Attivissimo racconta che i due trovarono nell'elenco di procedure da attuare sulla Luna che portavano cucito sulla manica della tuta, una serie di foto di donnine nude gentilmente offerte dai colleghi astronauti e corredate da frasi a doppio senso. Conrad e Bean furono inoltre i primi uomini a canticchiare sulla Luna e il comandante fu anche (an original!) il primo a cadervi sopra. Il ritorno terrestre di Conrad, contrariamente agli altri astronauti lunari, non fu segnato da grandi cambiamenti. Niente alcool, niente conversioni mistiche, niente divorzi (almeno nell’immediato, Conrad divorziò 20 anni dopo la sua missione lunare). Era anche uno dei pochi ad aver trovato la risposta giusta alla domanda che tormentava i moonwalker: “Cosa si prova a camminare sulla Luna?”. Mentre i colleghi si impantanavano con la poesia che era loro più aliena della Luna, Conrad rispondeva invariabilmente come un novenne appena sceso dall’ottovolante: “Super! Mi sono divertito un mondo”. Pareva, insomma, che l’influsso lunare che agitava i colleghi lo avesse risparmiato. Almeno fin quando non si seppe che era morto nel luglio del 1999 in seguito ad un incidente di moto avvenuto ad Ojai, che nella lingua dei nativi americani significa Luna.

Alan Bean, infine, è l’unico artista ad aver camminato sulla Luna, forse per questo l’idea che si forma nella mente di che legge le sue interviste è quella di un uomo completamente felice. Con lui la vita era stata crudele e misericordiosa. Dotato di una sensibilità acutissima, Bean era stato selezionato per ben due volte come astronauta in sostituzione di altrettanti colleghi morti. Sapeva che doveva loro la fortuna di poter passeggiare sulla Luna. Sapeva anche che la sua inesperienza di voli spaziali aveva determinato la scelta di Gordon come pilota del modulo di comando. Dopo quel 1969, per un decennio Bean ha convissuto con l’esigenza di fermare in qualche modo le sensazioni di quelle ore da miracolato, nel giorno più bello della sua vita. All’inizio degli anni ’80 ha capito che poteva farlo dipingendo. Il soggetto dei sui quadri è ossessivo: la Luna. La ritrae con una tecnica impressionista e ricca di dettagli, aggiungendo sulla tela anche piccoli frammenti della propria tuta di astronauta e di polvere lunare. Così, ha risarcito l’amico Gordon dipingendolo sul suolo lunare, allacciato in un abbraccio con lui e Conrad e ha potuto finalmente rispondere alla domanda per cui il capitano di Apollo 12 aveva trovato una formula giocosa, ritraendosi immerso nell’oro, nel grigio e nel viola, come sospeso tra un sogno acido e una levitazione mistica. Quando il giornalista Andrew Smith gli chiese se avesse qualche rimpianto di quegli anni, Bean rivolse il suo pensiero ai figli, alla tenerezza che provava a carezzare i loro capelli quando erano piccoli e a quanto avrebbe voluto farlo ancora.
Dick Gordon, Pete Conrad ed Alan Bean nella classica formazione pop di chitarra basso e batteria chiusero un decennio irripetibile suonando un ballabile malinconico, un blues scatenato, un inno dalla Luna alla Terra dal titolo che rubo ad una quadro del sensibile Bean: Il divertimento è ovunque lo si riesca a trovare.

Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
Tutto l'Apollo 12 minuto per minuto
Il sito in memoria di Pete Conrad
Il sito ufficiale di Dick Gordon
Le opere di Alan Bean (sempre che abbiate abbastanza soldi per potervele permettere)
Tutte le foto della missione
"Apollo 12 uncensored" video sul dietro le quinte della missione

Polvere di luna. La storia degli uomini che sfidarono lo spazio di Andrew Smith – Cairo Editore

Curiosità, dati tecnici e storici su Apollo 12 si trovano anche su "Luna? Sì ci siamo andati" di Paolo Attivissimo, scaricabile gratuitamente qui

giovedì 14 febbraio 2013

Il sorriso dell'ignoto siciliano



Come si dice “la tua vita è cambiata” in siciliano? Tiberio Murgia non lo sapeva e così, al tramonto degli anni ’50, stanco di una giornata da operaio al cantiere edile, quando vide un ragazzotto sul tram che gli rideva in faccia ripetendogli incomprensibili frasi in dialetto siciliano, drizzò la schiena schiantata dal lavoro, si guardò le mani piene di calli e decise di metterle addosso a quell’assurdo compagno di viaggio. 
Fu solo all’intervento della polizia che Tiberio Murgia apprese di essere diventato famoso e che quelle parole in dialetto, anche se incomprensibili alla lettera, ripetevano un senso che diceva: “la tua vita è cambiata!”
E per capire la cifra dell’esistenza di Tiberio Murgia prima di quel momento e quello che ne sarà dopo, dobbiamo obbligatoriamente inerpicarci sul terreno scosceso dell’identità, terreno reso ancora più aspro dalla acrobatica parabola di vita di questo caratterista volubile ed amante della vita in tutti i suoi sensi, soprattutto quelli femminili, altero per copione, allegro per indole, miracolato dal successo, ma costretto a lasciare se stesso come ex voto, impietrito in una maschera a lui estranea. Murgia nacque ad Oristano nel 1929, nella miseria più solida, quella che si poteva scalfire solo devotamente: a mani giunte nelle sacrestie o a colpi di falce e martello nelle case del popolo. E il giovane Tiberio, concreto ed alieno da ogni metafisica, si sottrasse alle ristrettezze della famiglia distribuendo l’Unità fra i pochi compaesani comunisti. I dirigenti locali del partito sospettarono in quel giovane dalla lingua pronta l'indole del politico e lo mandarono a Roma, alle Frattocchie, per studiare comunismo. Per la prima volta Murgia mangiava ogni giorno, ma la dialettica che più gli interessava era quella con le compagne di sesso femminile, inclinazione che il PCI, che su simili questioni era più bigotto della Chiesa rivale, rubricava alla voce “sovrastrutture”. 

Rispedito ad Oristano, si sposò, ebbe due figli e si diede a proseguire l’attività politica nella Federazione giovanile, intrecciando ancora una volta una relazione pericolosa con la moglie del locale dirigente del partito. Le pressioni sociali, l'insoddisfazione della vita coniugale, la ristrettezza della provincia sarda lo convinsero ad emigrare in Belgio, a Marcinelle, come minatore. Racconterà anni dopo, da attore famoso, un episodio che sta a metà tra la millanteria e l’autocalunnia. La notte del disastro minerario, infatti, Murgia afferma di essersi salvato dandosi malato per raggiungere l’amante, moglie di un suo collega di turno e prossima vedova. Scampato in un modo o nell’altro alla vita da emigrante estero, Murgia sa anche di non poter rimanere ad Oristano. Questa volta è la madre a venirgli in soccorso. Gli paga il costo del biglietto per andare a Roma, dove diverrà cameriere in un locale frequentato dalla gente del cinema. E da dietro il vetro della cucina viene notato da Mario Monicelli, colpito dal baffetto malandrino e dai due occhi puntuti su cui stavano assiepate, come a difesa, folte sopracciglia da battaglia. L'espressione era completata da un difetto alle palpebre che faceva apparire Murgia, pur piccolo di statura, un altezzoso aristocratico che osservava tutto e tutti dall’alto in basso, in quello che più che uno sguardo era un esercizio di ingegneria. Monicelli trova che sia perfetto per una parte del suo prossimo film, una parte da siciliano. Convince il cameriere a sottoporsi a dei provini insieme ad un’altra decina di siciliani autentici. Monicelli, contro il parere della produzione, si impunta per avere Murgia come interprete della parte di Ferribbotte, nome simpaticamente razzista che si scolpisce sul tipo del siciliano geloso e sentenzioso, destinato a divenire subito maschera per il pubblico e per l'interprete insperato colpo di fortuna. Per convincerlo ad accettare la parte gli promettono persino un nuovo lavoro da operaio edile, una volta terminate le riprese. 

Il film di Monicelli è, ovviamente, "I soliti ignoti" e, come è noto, racconta le gesta di un gruppo di poco convinti gangster di casa nostra, miseri scassinatori dalle mani tremanti. Il cameriere sardo interpreta il suo ruolo accanto ad attori come Totò, Gassman e Mastroianni, guadagnandosi la simpatia di tutti. Recita in italiano, senza sapere che verrà doppiato. Gli sceneggiatori Age e Scarpelli gli mettono in bocca frasi che sono verdetti per puntellare un edificio che ha per fondamenta una visione di vita focosa e maschia: "Fimmina piccanti pigghiala per amanti, fimmina cuciniera pigghila per mugghiera" oppure: "Peccato di pantalone, pronta assoluzione". La sua mimica è perfetta nella parte del morto di fame che guarda sdegnosamente il piatto vuoto, come a tenere segregata, oltre alla bella Claudia Cardinale, anche una pena dell’anima. Questa sorta di doloroso rovello sarà una nota in costante vibrazione nella carriera di Murgia che egli vivrà comunque con apparente noncuranza, come un ultrasuono percepito più dagli altri che da se stesso. Terminate le riprese Murgia investe oculatamente i guadagni in una nuova casa e torna al lavoro al cantiere edile in attesa di rivedersi al cinema nel film che lui crede debba intitolarsi “Le madame”. Non sa che la censura ha trovato offensivo il titolo che è stato cambiato in “I soliti ignoti”. La produzione, d’altro canto, non trovandolo al vecchio indirizzo di Roma e dopo essersi recata persino in Sardegna, ha smesso di cercarlo. Sarà la polizia, intervenuta a sedare la rissa sul tram col suo primo ammiratore a rivelargli che il film è in programmazione con grande successo in diverse sale della capitale. Contattata la produzione, Murgia si ritrova in appena 24 ore a firmare contratti per 4 nuovi film che gli valgono diversi milioni in tasca solo di anticipi. Il giorno successivo attua le proprie personalissime condizioni per la liberazione del proletariato. Si reca al cantiere edile e, ostentatamente, si appoggia alla pala fumando una sigaretta, immobile a qualsiasi richiamo dei capo squadra. Poi va via a consumare una seconda vendetta, questa volta dal taglio cinematografico. La leggenda vuole infatti che con i soldi guadagnati abbia comprato una Cadillac, vi abbia caricato a bordo due bonazze e si sia recato ad Oristano a percorrere in su e in giù il corso principale per dimostrare che adesso era diventato qualcuno. Solo nei primi due anni che seguono il successo de “I soliti ignoti” gira 21 film invariabilmente nella parte del siciliano e implacabilmente doppiato per rimediare ai natali nell'isola sbagliata e all'innata incapacità a recitare che faceva a pugni con la sua faccia spettacolare. Da quel momento alla fama, al successo, ai soldi, alle donne, si accompagnerà sempre un gusto di agrume che forse egli stesso seppe farsi scivolare sulle labbra senza comprenderlo (e d’altra parte lo abbiamo già detto che non era siciliano). Nel libro "Mefistofele e Ferribbotte, storia esemplare di Tiberio Murgia" sono riportate due testimonianze che accreditano questa malinconica maledizione e che appartengono a due periodi molto diversi della carriera di Murgia. Il primo, riferito dal collega attore Marco Leandris, racconta l'esperienza di Murgia all'apice del successo, nel 1962, quando fu chiamato come attrazione principale in una compagnia di avanspettacolo per una tournee teatrale di tre mesi. Di fronte ad un pubblico feroce, che pretendeva di vederlo nella parte di un comico compare Turiddu, tutto gelosia e sentenze, Murgia si trovò, letteralmente, spaesato. Lui che non aveva mai nascosto di non sapere recitare, doveva sostenere interi minuti di dialoghi. Finì che la compagnia si inventò delle scenette in cui lui parlava il meno possibile, facendo funzionare la faccia. Venne anche scritturato un doppiatore apposito, da dietro le quinte, che con un trucco piuttosto dozzinale lo faceva parlare nel dialetto che il pubblico si aspettava. 
Il secondo episodio appartiene alla fine degli anni '90 ed è riportato da Nicola Arigliano che, regalando un concerto ai suoi concittadini di una borgata al confine tra Lazio ed Umbria, invita anche Murgia che si trovava ospite in casa sua. Il pubblico lo riconosce, lo chiama Ferribbotte, lo invoca sul palco e gli chiede, ovviamente, di fare il siciliano. E Murgia, docilmente, improvvisa col migliore accento siculo possibile le sue solite battute sulla fimmina cuciniera e sul peccato di pantalone. Al pubblico non basta, ne vuole ancora, ma Ferribbotte non sa più che fare. Improvvisa un balletto rubando la coppola ad Arigliano, poi finge tristemente di suonare un immaginario marranzano, ma si vede che non è nella parte. "Non fu divertente" chiosa avvilito il musicista.

E a far da cerniera a questi due episodi c'è tutta la carriera in oltre 150 pellicole di un caratterista in equilibrio tra "La grande guerra" e "La bella Antonia prima monica e poi dimonia", tra Mastroianni e Totò per arrivare fino ad Alvaro Vitali e Franchi e Ingrassia, sospeso sul filo senza guardare mai in basso (magari per non accorgersi delle svariate volte in cui in basso era caduto), con la stessa incoscienza e gratitudine per la vita e la medesima condanna identitaria seguita dalle inevitabili (e spesso giustificate) invidie dei colleghi. Sarà sardo in sole due pellicole degli anni '80, per poche battute e per interpretare ancora stereotipi: il sequestratore e il pastore.
Morirà nel 2010 in una casa di cura per anziani, senza aver smesso di fumare e di guardare il culo alle infermiere, con la magnifica superiorità che lo rese famoso a giganteggiare anche sul morbo di Alzheimer che cominciava ad invaderlo, sbaragliandone le astuzie e confondendone le bugie con le tragiche armi della demenza. Uno degli ultimi film d’autore da lui girati, dove recitava in un cameo il ruolo di vecchio (siciliano, va da sé) è “Diceria dell’untore” tratto dal romanzo di Gesualdo Bufalino. Lo scrittore comisano non amava particolarmente il cinema italiano, ma aveva un debole per le seconde linee e i caratteristi e forse avrebbe potuto intenerirsi per la storia di questo apolide identitario che fu comunista e poi dissipatore di ricchezze, sciupa femmine e tradito, tenace e compromesso, astuto ed impostore, umile e gradasso, impenitente e castigato e, in quanto a patrie, poi, ebbe la Sardegna, il Belgio, Roma, il Lazio e la Sicilia, quest’ultima vissuta come un equivoco che lo infastidiva, un accidenti da cui non volersi (e non potersi) curare, come il difetto alle palpebre del suo sguardo, ché altrimenti non sarebbe stato più nessuno. Non se ne avrà a male, Bufalino, se ripercorriamo la lista da lui scherzosamente proposta per  l'identikit del Siciliano Assoluto in un gustoso elzeviro di trenta anni fa: 
- orgoglio e pudore in inestricabile nodo
- sentimento dell'onore offeso
- sentimento del teatro, spirito mistificatorio
- gusto della comunicazione avara e cifrata
- vanagloria virile, festa e tristezza nell'uso del sesso
- sentimento proprietario della casa con artificiale prolungamento di sé

e se sommessamente facciamo notare, teste il più abile falsario della nostra recente letteratura, che queste parole valgono un passaporto postumo di sicilianità e a sciogliere benignamente la matassa dell'anima di Tiberio Murgia Ferribbotte, Artista.


Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:

Ferribbotte e Mefistofele. Storia esemplare di Tiberio Murgia di Nicola Fano Exorma edizioni
Il solito ignoto di Sergio Sciarra e Tiberio Murgia Edizioni Insieme
Il sito del documentario dedicato a Murgia: "L'insolito ignoto"
il necrologio di Sergio Naitza su L'unione sarda
Una lunga intervista a Tiberio Murgia pubblicata su Youtube 

sabato 19 gennaio 2013

Clem Sacco: il Tarzan del rock and roll


L’anno in cui Belzebù arrivò a Milano fu un vero e proprio scuotimento. Si presentò in blue jeans e vistosa giacca a quadri, masticando parole americane. Aveva in testa idee di ribellione e un vaporoso ciuffo. Prometteva giorni felici e ballava un ballo nuovo, tutto energia e un pizzico di sesso, che si chiamava rock and roll. Era il 1957 e si stabilì al Teatro Smeraldo, dove riceveva in scatenati pomeriggi la gioventù dell’epoca. Fu subito scomunicato da ogni persona di buon senso: il questore, i celerini, l’Arcivescovo di Milano e ogni onesto genitore preoccupato per la sanità mentale dei propri figli.
Ci fu poco da fare. Belzebù col suo nuovo ballo offriva divertimento e coca cola, coraggio e caviglie in movimento, incontro e libertà di espressione: una piccola rivoluzione permanente in quattro quarti. In cambio non chiedeva mica l’anima (roba di un altro secolo, di altre patrie), ma piccole cose superflue: una briciola di identità, un cappello di feltro, schegge di tradizione, particelle di ordine costituito, la porta sbattuta dietro le spalle adolescenti in qualche casa. Attirati dall’offerta di un’evasione dal mondo contadino, artigiano e della fabbrica, per l'approdo ad una vita a stelle e strisce, arrivarono i più giovani, alcuni dei quali destinati a diventare gli astri di un firmamento sincopato e paesano. Quei giovani si chiamavano: Giorgio Gaber, Ghigo, Enzo Jannaci, Adriano Celentano, Guidone, Baby Gate (che poi sarebbe diventata Mina), Clem Sacco. E quella di Clemente Sacco, nato in Egitto da genitori italiani e trasferitosi a Milano per studiare canto lirico, è una storia che va raccontata. Se il mito americano della libertà di espressione andava prendendosi in musica quel magistero che aveva perduto in letteratura, a Clem Sacco importava poco. Dell’America lui conosceva i film di Ercole e Maciste e, con il suo fisico da culturista, si manteneva agli studi di canto lirico insegnando body building e scaricando frutta e verdura al mercato generale. Ad un concorso per baritono alla stagione lirica, bandito alla fine degli anni '50, arrivò secondo, decidendo che era arrivato il momento di darsi alla musica leggera, anzi, meglio, al nascente rock and roll. Debuttò nel 1961 con il singolo “Agnese Rock” e trovò una casa discografica, la Durium, disposta a produrlo. I suoi primi 45 giri ne rivelano il lato genuinamente umoristico e folle: “Enea con il neo”, “Ti è passato il nervoso” “Baba al mama” sono alcuni dei titoli di quegli anni. Sempre agli inizi dei ’60 una presenza scenica comunicativa e un’energia leonina ne fanno il protagonista più interessante di un’altra esperienza pioneristica italiana: i video box. In altre parole dei juke box dotati di schermo che proiettavano gli antenati degli odierni video clip, con alcune embrionali trovate di regia e di montaggio. Scovati dal giornalista Michele Bovi, questi filmati con Clem Sacco rivelano un umorismo semplice semplice, ma per i tempi dirompente. In uno si vede un cartello annunciare un serissimo concerto d’archi e un direttore d’orchestra, ripreso di spalle, mentre sta per dare il via alla musica. Ma quando il direttore si gira ecco rivelare Clem Sacco con la sua band che suonano un pezzo rock  intitolato “Oh mama voglio un uovo alla coque”. Non mancano passi di danza scimmieschi che fanno il verso a Celentano che fa il verso a Jerry Lewis e la comparsa di una graziosa infermiera (un cartello ci avvisa che la scena è ambientata in un manicomio) che balla mostrando persino il polpaccio. Se è evidente l'intenzione di marcare la distanza dalla musica seriosa, meno visibile è che Sacco, con il suo uovo alla coque, sta mostrando l'alterità della propria proposta anche nei confronti di un'altra serietà, quella del rock come musica nuova, giovane, ribelle e maledetta. Possibile che già qualcuno potesse prenderla in giro? Possibile che la musica del diavolo fosse già esorcizzata con un uovo alla coque?

L’esperienza dei video box non prende piede, ma le canzoni di Sacco circolano tra i giovani con grande divertimento. Il nostro artista sembra aver ritirato il suo regolare biglietto di invito alla festa da ballo con il successo, ma si accorgerà presto di essersi presentato con troppo anticipo e, a dirla tutta, con l’abbigliamento non proprio adeguato. Il fattaccio accade al Teatro Smeraldo nel 1961, alla presenza delle telecamere RAI. Sacco si esibisce in un ballo scatenato presentandosi al pubblico in mutande leopardate. Un Tarzan meneghino che affida alla giungla dei codini un folle richiamo per i coetanei: “Oh mamma voglio l’uovo alla coque, voglio fare il caschè scivolando dal bidet, sono pazzo come il rock!”
Il successo della performance è travolgente. Dell’esibizione in mutande leopardate parlano i giornali e la TV con i toni che è facile immaginare, il pubblico giovane è entusiasta, i moralisti si scandalizzano come da copione. Quando il giorno successivo viene convocato negli uffici della sua casa discografica, Sacco si aspetta complimenti e strette di mano, magari un contratto coi fiocchi. Il patron, invece, è furibondo per lo scandalo: “Lei ci ha trascinato nella vergogna con quella schifezza di spettacolo”. Clem, che ovviamente era già stato censurato a priori dalla RAI e dalle radio, si ritrova senza casa discografica e marchiato da un embargo che da quel giorno diverrà sempre più ostinato. In soccorso arriva, però, Adriano Celentano che in quello stesso anno parte per il servizio militare. Sacco entra nel Clan come voce solista dei Ribelli  e diviene il sostituto del Molleggiato alle prese con la difesa della patria. Per vari mesi I Ribelli girano l’Italia riproponendo le canzoni di Celentano cantate da Sacco, più brani originali dello stesso Clem che mandano il pubblico in visibilio. Sacco, in effetti, più che un surrogato, è un Celentano al superlativo, uno che ha sferrato del tutto i giri alla sua corda pazza, dandole libertà di correre in lungo e in largo nel campo della stravaganza e dello spasso. Al ritorno dalla naja di Celentano, Sacco fonda un proprio gruppo, I Califfi e si lancia in nuove canzoni dove continua a frullare il suo nonsense non ideologico e rispondente all'unica parola d'ordine del divertimento. Nascono canzoni come “Il deficiente”, la proto punk “Spacca, rompi, spingi” o la famigerata “Vampira cha cha cha” meglio conosciuta come “Baciami la vena varicosa” con un testo (“Baciami la vena varicosa, succhiami il dente del giudizio, strappami il pelo del neo, vampira vampira vampira cha cha”) di ineguagliabile ebbrezza anatomica almeno fino all’avvento, un quindicennio dopo, del “Silvano” di Jannacci, Cochi e Renato.
Il successo, dopo i discografici, le radio, le TV, gli volta le spalle. Si preferiscono lacrime sul viso e cuori matti, baci anche in numero di ventiquattromila, ma tutti in zone meno repellenti. Per sostenere la sua musica fonda la Clem Sacco Records, un altro esperimento pioneristico di etichetta indipendente. Racconta il maestro Vince Tempera sul sito di Michele Bovi: “A Milano, di fronte al negozio delle Messaggerie Musicali, era perennemente parcheggiato il camper di Clem Sacco. Era il suo personale supermarket: vendeva i suoi dischi, le musicassette e mille altre cose, dai tagliaunghie alle carte da poker con le donnine nude. Io che avevo avuto occasione di suonare il piano nel suo gruppo e conoscevo bene quindi il  talento dell’artista trovavo assurda e mortificante quella situazione. Eppure lui la viveva alla grande: sempre allegro, vitale, coraggioso.” La sua reazione alle disavventure artistiche è in effetti gagliarda: vende enciclopedie porta a porta, fa il piazzista, diventa persino modello all’Accademia di Brera per lo scultore Francesco Messina.
Lo spettacolo, però, sembra averlo già dimenticato con una smorfia di fastidio. Sul finire degli anni ’60 il suo impresario gli comunica che non ha più nemmeno una serata da offrirgli, che le porte sono tutte chiuse. Tutte tranne una, anche se si tratta di una proposta irricevibile, che tutti hanno rifiutato, quasi un marchio di infamia. La proposta è quella di esibirsi en travesti sul palcoscenico dell’Alexander Bar, uno storico locale di Milano per omosessuali. Sacco, che ha una famiglia da mantenere, accetta con il solito entusiasmo e per sei mesi veste i panni di Clementina Gay con tanto di fisico bestiale ingentilito (vabbè) da una parruccona bionda.
Alla fine del decennio successivo l’ormai dimenticato rocker che era stato precursore di tutto si trasferisce alle Canarie sfruttando la sua voce dai mille registri ed esibendosi nei piano bar, ai matrimoni, nei club.
Così sembrava dissiparsi la memoria di un artista che ha operato senza il riparo delle categorie postume in cui lo si può incasellare oggi: dal trash al demenziale, passando per lo stracult. Indecifrabile per i contemporanei, se avesse avuto una mimica diversa, più sofisticata, avrebbe potuto forse far parte dei Brutos, ma Clem Sacco era una irruente forza della natura che operava senza rete, come i più spericolati trapezisti. I suoi sberleffi squinternati giunsero troppo tempo prima che il pubblico e il mercato fossero in grado di accettarli (perché in fondo è tutto da dimostrare che il tuo bacio è come un rock sia meno demenziale del bacio sulla vena varicosa) e per di più in una forma furiosamente esplicita e stravagante. Di fronte all’ostracismo Sacco si è industriato come meglio ha potuto, senza mai rinunciare alla propria libertà, fermandosi sempre un attimo prima di precipitare nella volgarità e senza mai ricorrere all’arte penosamente italiana dell’atteggiarsi a vittima. E quando non c’è stato più spazio per lui se ne è andato ad essere se stesso altrove.
Nel nuovo millennio il già citato giornalista RAI Michele Bovi si interessa al fenomeno dei Cinebox e scova Clem Sacco, ormai completamente dimenticato nel suo ritiro alle Canarie, ma ancora indomito, tra i fumi di un night club e gli acciacchi dell’età. Improvvisamente per questo quasi ottantenne si riaccendono i riflettori della notorietà. A partire dal 2006 Clem Sacco torna a shakerare nonsense ed energia sui palcoscenici italiani. Lo invitano persino sui canali di quella RAI che quarant'anni prima lo aveva messo al bando. In gran forma, con una voce ancora potente, credibile nonostante la pancia, la dentiera scintillante e i capelli tinti.
Il pubblico giovane, scafato da decenni di Elio e di Skiantos, lo invoca a gran voce come precursore e nonno rock e lui, proprio come un nonno casalingo lancia appelli ai suoi piccoli nipoti contro l'alcool, il fumo, la droga e poi agita la platea raccontando a tutto volume le favole della vena varicosa e dell'uovo alla coque, svelando che sotto le giacche sgargianti e i pantaloni bianchi ruggiscono ancora felicemente le mutande leopardate di un artista libero e filosofo, che per primo ha riso in faccia a Belzebù.