giovedì 14 febbraio 2013

Il sorriso dell'ignoto siciliano



Come si dice “la tua vita è cambiata” in siciliano? Tiberio Murgia non lo sapeva e così, al tramonto degli anni ’50, stanco di una giornata da operaio al cantiere edile, quando vide un ragazzotto sul tram che gli rideva in faccia ripetendogli incomprensibili frasi in dialetto siciliano, drizzò la schiena schiantata dal lavoro, si guardò le mani piene di calli e decise di metterle addosso a quell’assurdo compagno di viaggio. 
Fu solo all’intervento della polizia che Tiberio Murgia apprese di essere diventato famoso e che quelle parole in dialetto, anche se incomprensibili alla lettera, ripetevano un senso che diceva: “la tua vita è cambiata!”
E per capire la cifra dell’esistenza di Tiberio Murgia prima di quel momento e quello che ne sarà dopo, dobbiamo obbligatoriamente inerpicarci sul terreno scosceso dell’identità, terreno reso ancora più aspro dalla acrobatica parabola di vita di questo caratterista volubile ed amante della vita in tutti i suoi sensi, soprattutto quelli femminili, altero per copione, allegro per indole, miracolato dal successo, ma costretto a lasciare se stesso come ex voto, impietrito in una maschera a lui estranea. Murgia nacque ad Oristano nel 1929, nella miseria più solida, quella che si poteva scalfire solo devotamente: a mani giunte nelle sacrestie o a colpi di falce e martello nelle case del popolo. E il giovane Tiberio, concreto ed alieno da ogni metafisica, si sottrasse alle ristrettezze della famiglia distribuendo l’Unità fra i pochi compaesani comunisti. I dirigenti locali del partito sospettarono in quel giovane dalla lingua pronta l'indole del politico e lo mandarono a Roma, alle Frattocchie, per studiare comunismo. Per la prima volta Murgia mangiava ogni giorno, ma la dialettica che più gli interessava era quella con le compagne di sesso femminile, inclinazione che il PCI, che su simili questioni era più bigotto della Chiesa rivale, rubricava alla voce “sovrastrutture”. 

Rispedito ad Oristano, si sposò, ebbe due figli e si diede a proseguire l’attività politica nella Federazione giovanile, intrecciando ancora una volta una relazione pericolosa con la moglie del locale dirigente del partito. Le pressioni sociali, l'insoddisfazione della vita coniugale, la ristrettezza della provincia sarda lo convinsero ad emigrare in Belgio, a Marcinelle, come minatore. Racconterà anni dopo, da attore famoso, un episodio che sta a metà tra la millanteria e l’autocalunnia. La notte del disastro minerario, infatti, Murgia afferma di essersi salvato dandosi malato per raggiungere l’amante, moglie di un suo collega di turno e prossima vedova. Scampato in un modo o nell’altro alla vita da emigrante estero, Murgia sa anche di non poter rimanere ad Oristano. Questa volta è la madre a venirgli in soccorso. Gli paga il costo del biglietto per andare a Roma, dove diverrà cameriere in un locale frequentato dalla gente del cinema. E da dietro il vetro della cucina viene notato da Mario Monicelli, colpito dal baffetto malandrino e dai due occhi puntuti su cui stavano assiepate, come a difesa, folte sopracciglia da battaglia. L'espressione era completata da un difetto alle palpebre che faceva apparire Murgia, pur piccolo di statura, un altezzoso aristocratico che osservava tutto e tutti dall’alto in basso, in quello che più che uno sguardo era un esercizio di ingegneria. Monicelli trova che sia perfetto per una parte del suo prossimo film, una parte da siciliano. Convince il cameriere a sottoporsi a dei provini insieme ad un’altra decina di siciliani autentici. Monicelli, contro il parere della produzione, si impunta per avere Murgia come interprete della parte di Ferribbotte, nome simpaticamente razzista che si scolpisce sul tipo del siciliano geloso e sentenzioso, destinato a divenire subito maschera per il pubblico e per l'interprete insperato colpo di fortuna. Per convincerlo ad accettare la parte gli promettono persino un nuovo lavoro da operaio edile, una volta terminate le riprese. 

Il film di Monicelli è, ovviamente, "I soliti ignoti" e, come è noto, racconta le gesta di un gruppo di poco convinti gangster di casa nostra, miseri scassinatori dalle mani tremanti. Il cameriere sardo interpreta il suo ruolo accanto ad attori come Totò, Gassman e Mastroianni, guadagnandosi la simpatia di tutti. Recita in italiano, senza sapere che verrà doppiato. Gli sceneggiatori Age e Scarpelli gli mettono in bocca frasi che sono verdetti per puntellare un edificio che ha per fondamenta una visione di vita focosa e maschia: "Fimmina piccanti pigghiala per amanti, fimmina cuciniera pigghila per mugghiera" oppure: "Peccato di pantalone, pronta assoluzione". La sua mimica è perfetta nella parte del morto di fame che guarda sdegnosamente il piatto vuoto, come a tenere segregata, oltre alla bella Claudia Cardinale, anche una pena dell’anima. Questa sorta di doloroso rovello sarà una nota in costante vibrazione nella carriera di Murgia che egli vivrà comunque con apparente noncuranza, come un ultrasuono percepito più dagli altri che da se stesso. Terminate le riprese Murgia investe oculatamente i guadagni in una nuova casa e torna al lavoro al cantiere edile in attesa di rivedersi al cinema nel film che lui crede debba intitolarsi “Le madame”. Non sa che la censura ha trovato offensivo il titolo che è stato cambiato in “I soliti ignoti”. La produzione, d’altro canto, non trovandolo al vecchio indirizzo di Roma e dopo essersi recata persino in Sardegna, ha smesso di cercarlo. Sarà la polizia, intervenuta a sedare la rissa sul tram col suo primo ammiratore a rivelargli che il film è in programmazione con grande successo in diverse sale della capitale. Contattata la produzione, Murgia si ritrova in appena 24 ore a firmare contratti per 4 nuovi film che gli valgono diversi milioni in tasca solo di anticipi. Il giorno successivo attua le proprie personalissime condizioni per la liberazione del proletariato. Si reca al cantiere edile e, ostentatamente, si appoggia alla pala fumando una sigaretta, immobile a qualsiasi richiamo dei capo squadra. Poi va via a consumare una seconda vendetta, questa volta dal taglio cinematografico. La leggenda vuole infatti che con i soldi guadagnati abbia comprato una Cadillac, vi abbia caricato a bordo due bonazze e si sia recato ad Oristano a percorrere in su e in giù il corso principale per dimostrare che adesso era diventato qualcuno. Solo nei primi due anni che seguono il successo de “I soliti ignoti” gira 21 film invariabilmente nella parte del siciliano e implacabilmente doppiato per rimediare ai natali nell'isola sbagliata e all'innata incapacità a recitare che faceva a pugni con la sua faccia spettacolare. Da quel momento alla fama, al successo, ai soldi, alle donne, si accompagnerà sempre un gusto di agrume che forse egli stesso seppe farsi scivolare sulle labbra senza comprenderlo (e d’altra parte lo abbiamo già detto che non era siciliano). Nel libro "Mefistofele e Ferribbotte, storia esemplare di Tiberio Murgia" sono riportate due testimonianze che accreditano questa malinconica maledizione e che appartengono a due periodi molto diversi della carriera di Murgia. Il primo, riferito dal collega attore Marco Leandris, racconta l'esperienza di Murgia all'apice del successo, nel 1962, quando fu chiamato come attrazione principale in una compagnia di avanspettacolo per una tournee teatrale di tre mesi. Di fronte ad un pubblico feroce, che pretendeva di vederlo nella parte di un comico compare Turiddu, tutto gelosia e sentenze, Murgia si trovò, letteralmente, spaesato. Lui che non aveva mai nascosto di non sapere recitare, doveva sostenere interi minuti di dialoghi. Finì che la compagnia si inventò delle scenette in cui lui parlava il meno possibile, facendo funzionare la faccia. Venne anche scritturato un doppiatore apposito, da dietro le quinte, che con un trucco piuttosto dozzinale lo faceva parlare nel dialetto che il pubblico si aspettava. 
Il secondo episodio appartiene alla fine degli anni '90 ed è riportato da Nicola Arigliano che, regalando un concerto ai suoi concittadini di una borgata al confine tra Lazio ed Umbria, invita anche Murgia che si trovava ospite in casa sua. Il pubblico lo riconosce, lo chiama Ferribbotte, lo invoca sul palco e gli chiede, ovviamente, di fare il siciliano. E Murgia, docilmente, improvvisa col migliore accento siculo possibile le sue solite battute sulla fimmina cuciniera e sul peccato di pantalone. Al pubblico non basta, ne vuole ancora, ma Ferribbotte non sa più che fare. Improvvisa un balletto rubando la coppola ad Arigliano, poi finge tristemente di suonare un immaginario marranzano, ma si vede che non è nella parte. "Non fu divertente" chiosa avvilito il musicista.

E a far da cerniera a questi due episodi c'è tutta la carriera in oltre 150 pellicole di un caratterista in equilibrio tra "La grande guerra" e "La bella Antonia prima monica e poi dimonia", tra Mastroianni e Totò per arrivare fino ad Alvaro Vitali e Franchi e Ingrassia, sospeso sul filo senza guardare mai in basso (magari per non accorgersi delle svariate volte in cui in basso era caduto), con la stessa incoscienza e gratitudine per la vita e la medesima condanna identitaria seguita dalle inevitabili (e spesso giustificate) invidie dei colleghi. Sarà sardo in sole due pellicole degli anni '80, per poche battute e per interpretare ancora stereotipi: il sequestratore e il pastore.
Morirà nel 2010 in una casa di cura per anziani, senza aver smesso di fumare e di guardare il culo alle infermiere, con la magnifica superiorità che lo rese famoso a giganteggiare anche sul morbo di Alzheimer che cominciava ad invaderlo, sbaragliandone le astuzie e confondendone le bugie con le tragiche armi della demenza. Uno degli ultimi film d’autore da lui girati, dove recitava in un cameo il ruolo di vecchio (siciliano, va da sé) è “Diceria dell’untore” tratto dal romanzo di Gesualdo Bufalino. Lo scrittore comisano non amava particolarmente il cinema italiano, ma aveva un debole per le seconde linee e i caratteristi e forse avrebbe potuto intenerirsi per la storia di questo apolide identitario che fu comunista e poi dissipatore di ricchezze, sciupa femmine e tradito, tenace e compromesso, astuto ed impostore, umile e gradasso, impenitente e castigato e, in quanto a patrie, poi, ebbe la Sardegna, il Belgio, Roma, il Lazio e la Sicilia, quest’ultima vissuta come un equivoco che lo infastidiva, un accidenti da cui non volersi (e non potersi) curare, come il difetto alle palpebre del suo sguardo, ché altrimenti non sarebbe stato più nessuno. Non se ne avrà a male, Bufalino, se ripercorriamo la lista da lui scherzosamente proposta per  l'identikit del Siciliano Assoluto in un gustoso elzeviro di trenta anni fa: 
- orgoglio e pudore in inestricabile nodo
- sentimento dell'onore offeso
- sentimento del teatro, spirito mistificatorio
- gusto della comunicazione avara e cifrata
- vanagloria virile, festa e tristezza nell'uso del sesso
- sentimento proprietario della casa con artificiale prolungamento di sé

e se sommessamente facciamo notare, teste il più abile falsario della nostra recente letteratura, che queste parole valgono un passaporto postumo di sicilianità e a sciogliere benignamente la matassa dell'anima di Tiberio Murgia Ferribbotte, Artista.


Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:

Ferribbotte e Mefistofele. Storia esemplare di Tiberio Murgia di Nicola Fano Exorma edizioni
Il solito ignoto di Sergio Sciarra e Tiberio Murgia Edizioni Insieme
Il sito del documentario dedicato a Murgia: "L'insolito ignoto"
il necrologio di Sergio Naitza su L'unione sarda
Una lunga intervista a Tiberio Murgia pubblicata su Youtube