sabato 22 settembre 2012

I mondiali dell'Olanda: rivoluzioni e secondi posti (II parte)

Non so quale sia stata la mascotte dei mondiali di calcio in Argentina del 1978, ma una testa mozzata di cavallo avrebbe reso bene l’idea. In quell’anno, complice la FIFA, il calcio celebra la dittatura militare di Videla e la sua organizzazione che lancia dal cielo tonnellate di coriandoli sui campi di gioco e centinaia di corpi di desaparecidos in mare. Nel sinistro delirio di festa e lutto, gloria e vergogna, felicità e terrore, il boato dei tifosi copriva le urla degli oppositori torturati nelle palestre del regime e la popolazione tutta, in quel mese, sospese la realtà per i 90’ minuti delle partite per poi tornare a fare i conti con i tetri picchetti d’onore, gli amici scomparsi, i familiari torturati, la crisi economica.
La riorganizzazione nazionale dei generali aveva individuato nel mondiale di calcio una imperdibile occasione propagandistica: si sprecarono gli appelli al patriottismo e gli slogan sulla pace e l’amicizia tra i popoli, meglio se suggellati dalla consegna della Coppa del Mondo nelle mani dei giocatori argentini. Quelli stessi che all’esordio del mondiale, inclusi in un girone che comprendeva le forti Ungheria, Italia e Francia, ricevettero la visita dei membri della giunta militare che, secondo la testimonianza del centravanti Leopoldo Luque, li avvisarono di comportarsi bene nel “girone della morte”. Con la passione che hanno nell’esercito per le metafore, era un po’ come ricevere un invito a cena da Hannibal Lecter.

Le altre nazioni, intanto, si voltano a guardare altrove, preferibilmente in direzione dei nuovi televisori a colori che trasmettono la rassegna. L'unica eccezione è la televisione olandese che, al posto della cerimonia inaugurale, manda in onda le immagini delle donne armate di fazzoletti che marciano davanti al palazzo del governo per chiedere notizie dei loro figli.
E la nazionale degli arancioni in questo scenario si trovava di fronte a due vie per passare alla storia del calcio: non partecipare alla liturgia mondiale o immolarsi sull’altare del secondo posto perdendo immeritatamente la seconda finale consecutiva contri i padroni di casa. Le percorse in un certo senso entrambe: i giocatori più rappresentativi della squadra che appena 4 anni prima aveva cambiato il modo di intendere il calcio, infatti, rimasero a casa. Van Hanegem perché non aveva trovato un accordo economico con la Federazione, Joan Crujiff per protesta, si disse, contro il regime militare argentino, ma in verità perché sconvolto da un tentativo di rapimento subito in Spagna.
Non c’era nemmeno il guru Michels, sostituito in panchina dall’austriaco di scuola Feyenoord Ernst Happel, un altro sergente di ferro, più difensivista del predecessore, ma ugualmente capace e dotato di idee all’avanguardia e non esclusivamente in campo calcistico. Riuscì, infatti, a scandalizzare persino la liberale Olanda autorizzando la presenza in ritiro non solo di mogli e fidanzate dei calciatori, ma anche di accompagnatrici e groupie, secondo il motto per cui “un giocatore sessualmente felice è un giocatore migliore.”

Per migliorare il secondo posto di Germania ’74, però, ci voleva qualcosa in più che qualche fan disponibile sotto le lenzuola. Happel pensò bene di affidarsi ai reduci del 1974,  ed ecco ancora Johnny Rep bello e incostante realizzatore, Rob Rensenbrink l’infallibile rigorista che in carriera sbagliò un solo calcio dagli 11 metri pur avendo l’abitudine di dichiarare ai portieri dove avrebbe calciato, il generoso Joan Neeskens, l’elegante Krol e l’insuperato Haan, a cui affiancò i gemelli Van dekerkof, Brandts, Poortvliet e, in porta, Schrijvers preferito al pittoresco Jongbloed.
La squadra olandese non ha più l’implacabile bellezza dell’arancia meccanica di quattro anni prima e il cammino iniziale è irto di ostacoli e di differenze reti. Dopo essersi sbarazzati dell’Iran con una tripletta di Rensenbrink la squadra si inceppa. Pareggia zero a zero con il modesto Perù e addirittura viene sconfitta per 3-2 dalla Scozia, arrivando al girone di semifinale solo per il maggior numero di gol segnati.
Nelle tre partite decisive per la finalissima, però, la squadra rimette in mostra un bel gioco atletico e smaliziato seppellendo per 5-1 l’Austria e pareggiando in rimonta per 2-2 con la Germania Ovest nella rivincita di Germania ‘74. Nella partita decisiva contro l’Italia, che aveva mostrato il miglior calcio del torneo, l’Olanda andò subito sotto con una autorete di Brandts che costò anche un infortunio al portiere titolare. Happel rispolverò il folle 37enne Jongbloed, l’ultimo dei provos con le ginocchiere bianche e le mani nude. A fare la figura del vecchietto, però fu l’inossidabile Dino Zoff trafitto da un tiro dalla lunga distanza di Brandts (dopo che gli olandesi non restituirono palla agli azzurri su un fallo laterale procurato per curare il Dinosauro azzurro) e da una traiettoria di straordinaria perizia balistica da 40 metri di Haan. Ma tutta la squadra azzurra, a partire dal secondo tempo, fu messa sotto dal furente pressing olandese e da una metodica strategia del fuorigioco, con un seduttivo strapotere tecnico e tattico che ne legittimò la vittoria e fa tutt'ora passare in terzo piano l’animosità minacciosa  con cui quella squadra sopperiva all’assenza di Crujiff e Van Hanegem. L’Olanda era ancora in finale e ancora contro i padroni di casa.

L’Argentina era arrivata alla partita decisiva  in carrozza grazie ai buoni uffici FIFA che consentirono agli uomini allenati da Menotti di giocare la partita decisiva conoscendo già il risultato del Brasile, diretto avversario per la finale. Una grande mano venne anche dagli avversari dell’ultimo incontro di semifinale, i peruviani che, dopo aver ricevuto la solita amichevole visita dei militari e le intimidazioni notturne e diurne dei tifosi di casa, pensarono bene di schierare in porta il portiere argentino Quiroga, appena naturalizzato peruviano. Quiroga volle strafare e fece del suo meglio per incassare i 6 gol necessari all’Argentina per ottenere una migliore differenza reti sul Brasile. Garantì così la finale agli uomini di Menotti, un credito illimitato e un carico di svariate tonnellate di grano al proprio governo (concesse contestualmente alla gara dal governo argentino) e un’eterna ignominia su di sé e sulla marmelada peruviana con cui passò alla storia l’incontro.
Le formazioni di Olanda e Argentina

La finale si giocò nel pomeriggio del 25 giugno a Buenos Aires. Che l’Olanda stesse per combattere una battaglia persa lo capirono subito tutti, a partire dalla ricusazione argentina dell’arbitro scelto per la finale (l’israeliano che aveva diretto l’unica sconfitta dei padroni di casa contro l’Italia), che venne sostituito da un tremebondo Sergio Gonella. Il centravanti Rep ricorda le ore precedenti alla partita con angoscia: caldo torrido, militari armati ovunque e il pullman dell’Olanda circondato da centinaia di scalmanati che tiravano pietre e manate contro il mezzo, costretto a impiegare un’ora per percorrere i 20 Km che lo separavano dallo stadio, in una atmosfera a dir poco intimidatoria. Quando le squadre scesero in campo l’antipasto arbitrale: Gonnella irritò gli olandesi imponendo a René van de Kerkhof di togliere la fasciatura al braccio che però il giocatore aveva indossato, col bene stare della FIFA, per altre partite del mondiale. Gli olandesi minacciarono di non giocare e si arrivò ad un compromesso per potere iniziare l'incontro. L’arbitraggio dell’italiano è a senso unico, sostenuto da colleghi guardalinee che fischiano all’Olanda fuorigioco immaginari e permettono all’Argentina diversi colpi sotto la cintura e almeno uno troppo al di sopra di essa, che costò a Neeskens la perdita di due denti.
Dick Nanninga

Il lampo in rete del matador Mario Kempes nel primo tempo è l’annuncio di un messo che porta una notizia fatale, che già tutti conoscono: Argentina campione del mondo! Quando il panchinaro Dick Nanninga, entrato al posto di Rep, inzucca dall'alto dei suoi basettoni un pallone che planava dimenticato in area di rigore argentina al minuto 82, quindi, più che a un gol si pensa ad un incidente diplomatico.
Nei restanti 10 minuti di gioco, però, si rischiò la dichiarazione di guerra vera e propria. Il capitano in cerca di ventura è Rob Rensenbrink, centravanti mite ed introverso con un talento che molti paragonarono a quello di Crujiff e che egli però consumò a rischiarare il grigiore minerario e burocratico di Bruxelles, fabbricando, con il soprannome di serpente, la fortuna nazionale ed europea dell’Anderlecht. E con astuzia serpentina, a tempo scaduto, nel pomeriggio di Buenos Aires, Rensenbrink raccoglie un lungo lancio della difesa, brucia in velocità il diretto avversario e scavalca il portiere con un tiro deflagrante, una granata lanciata dalla linea di fondo campo contro l’intera nazione argentina. Il pallone viene disinnescato dal palo a porta sguarnita. Pochi centimetri separarono Rensenbrink dalla Coppa del Mondo e dal titolo di capocannoniere del torneo, mentre 25 milioni di argentini ripresero fiato. Lo riprese anche Gonnella per riversarlo nel fischietto a chiudere, non si sa mai, i primi 90 minuti di gara. Anni dopo il capitano dell’Argentina Daniel Passarella ammise che in ogni caso l’arbitro avrebbe trovato il modo di annullare quel gol. O avrebbe concesso un recupero illimitato o avrebbe lasciato che la folla invadesse il campo in una variante sportiva di golpe. I supplementari riconducono tutti alla ragione. L’anziano Jongbloed smette i panni dell’eroico portiere volante e si china a raccogliere dalla rete i tiri di Kempes (che diventa così lui il capocannoniere del torneo) e di Bertoni. Il gol di Nanninga torna ad essere un gesto provocatorio, una scritta pacifista sul muro di una base militare, l’ultimo ceppo da ardere nel falò delle vanità in cui si consumarono i 2 mondiali olandesi degli anni ‘70. L’Olanda non si presenterà alla cerimonia di premiazione per protesta contro l’arbitro e per non stringere le mani di Videla e soci. Per il calcio totale è il morbido crepuscolo che sancisce il mito dei perdenti di successo. Un crepuscolo che preparava una gelida notte, rischiarata soltanto dal sole di mezzanotte degli europei del 1988 vinti dalle galoppate di Gullit e dai capolavori di Van Basten.
Videla consegna la coppa

Per rivedere gli arancioni sul palcoscenico di una finale bisognerà aspettare i mondiali del 2010 in Sud Africa, ma questa volta ero io quello distratto da una recente paternità e da una precoce eliminazione della nazionale italiana. Dicono le cronache che l’Olanda abbia giocato bene, vincendo a punteggio pieno il girone eliminatorio e superando in rimonta ai quarti il Brasile grazie ad una doppietta di Sneijder. Sbarazzatasi dell'Uruguay in semifinale, l'Olanda trova a contenderle il titolo la Spagna. E' una partita in cui gli orange usano il randello, forse avvezzi all’idea che la vittoria è ostile alla bellezza e che se quest’ultima, come dicono, può salvare il mondo, di certo non può far vincere la Coppa del mondo. E d’altra parte il vessillo della rivoluzione calcistica era passato agli avversari, alla Spagna dello smisurato possesso palla, dagli orizzonti rasoterra, dalle identiche traiettorie che preparano la certezza di letali incursioni verso la rete avversaria. L’ennesima reincarnazione del calcio totale che nella sua perfezione innegabile mi ricorda costantemente l’ingranaggio di un orologio, la visione di un balletto classico e tutto quello che lascia la bocca aperta per lo stupore e per uno sbadiglio.

Epilogo: Nel giugno 2008 L'Instituto Espacio por la Memoria di Buenos Aires ha organizzato una partita tra Argentina Olanda nello stesso stadio e con alcuni dei protagonisti della finale di trenta anni prima. La partita è terminata, come è giusto, in parità e, come ancora più giusto, in abbracci.
Rob Rensenbrink


Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:


Il racconto del Mondiale

La sintesi della finale
Per acquistare la maglia storica dell'Olanda ai mondiali
Testimonianze su Peacereporter
La rivoluzione dei tulipani di Alec Cordolcini Ed. Bradipolibri
Pallone desaparecido di Alec Cordolcini e Andrea Maggiolo Ed. Bradipolibri

martedì 4 settembre 2012

I mondiali dell'Olanda: rivoluzioni e secondi posti (I parte)

Mondiali di calcio in Germania Ovest del 1974. Mio padre è tesissimo durante una Italia - Polonia decisiva per il passaggio del turno eliminatorio. Ad un minuto imprecisato del primo tempo mia mamma ha la nausea. L’Italia, in effetti, giocava da voltastomaco, ma non era quella la causa del malessere. Il motivo ero io, che nelle profondità uterine stavo organizzando le mie 23 coppie di cromosomi in qualcosa di più serio di un grumo di cellule e, con i mezzi a mia disposizione, lo manifestavo al microcosmo familiare. Fu così che mio padre seguì la moda di quei giorni e mandò al diavolo Valcareggi (pur senza entrare nella storia come Chinaglia), corse in farmacia per acquistare una test di gravidanza e sciolse per sempre la tensione del tifo in felicità genitoriale, scoprendo che il calcio era relativo negli stessi giorni in cui tutto il mondo lo consacrava come totale.
Questa del calcio totale è, come il cannocchiale, l’affettatrice meccanica, la commestibilità delle patate e la pacifica convivenza tra chiese calviniste e quartieri del sesso, una invenzione olandese. A dirla tutta anche la stessa Olanda è una invenzione degli olandesi, che in una loro personalissima conquista del west, con un complesso sistema di dighe e sbarramenti, rubarono chilometri quadrati al mare, agli acquitrini e alla malaria  e in quegli spazi si stabilirono. 
E il concetto di spazio è il grimaldello per la comprensione del calcio totale e l’ossessione che ne giustifica il successo. Se la skyline di una città come New York, con i suoi grattacieli e gli impiegati che al loro interno compilavano pratiche attendendo la domenica, giustificarono la nascita del gioco del cruciverba, il piatto confine dei paesi bassi e i geni ereditati dai coraggiosi batavi diedero vita ad un football architettonico che realizzò la fusione tra la linea orizzontale, costante presenza ad un popolo che vive sotto il livello del mare, e la linea verticale che con uno scarto di 90 gradi dall’orizzonte si lancia come una freccia avvelenata in direzione dell’area di rigore, in quelle che diverranno famose come verticalizzazioni.
“Crea lo spazio, occupa lo spazio, organizza lo spazio” è il motto del calcio olandese che si incide ovunque sui Mondiali del 1974 in Germania Ovest. Ovunque tranne che sulla Coppa del Mondo. 

La nazionale dei tulipani in quell’anno, però, non partiva da favorita. Lo spogliatoio diviso in due blocchi assomigliava ad una santabarbara pronta ad esplodere per una minima scintilla. Da una parte l'esca dei giocatori dell’Ajax, club della raffinata borghesia di Amsterdam, dall’altra la pietra focaia dei giocatori del Feyenoord, la maschia squadra dei portuali di Rotterdam.
Per tenere assieme queste due anime fu chiamato Rinus Michels, ex allenatore dell’Ajax che mieteva successi nelle competizioni europee per club dei primi anni ‘70. Era detto il generale e, a rivelare compiutamente le geometrie del calcio totale, imponeva il suo verbo ai giocatori: “tutti devono sapere cosa fare in qualsiasi zona del campo”. Aveva due sole regole: la prima diceva che l’allenatore ha sempre ragione. La seconda: quando l’allenatore ha torto, si applica automaticamente la prima regola.
Un originale poster di Crujiff
Facile immaginarselo in posa equestre mentre comanda dall'alto di una collina un indimenticabile undici di giocatori, tra cui spiccava il talento soprannaturale di Joan Cruijff, prototipo del giocatore totale: polemico, anticonformista, narciso, bello in campo e fuori. È il perno su cui gira la combinazione tra individualismo e collettivismo che farà grande l’Olanda. C’erano poi Neeskens, Rud Krol, Haan, Rep e uno dei giocatori più amati dagli olandesi, un autentico numero due alle spalle del divino Crujiff: Wim van Hanegem, detto lo Storto. È l’antitesi di Joan, forse la sua nemesi: bandiera del Feyenoord, lento nei suoi movimenti ingobbiti, un carattere lupesco e sarcastico, poco incline alle pubbliche relazioni, ma invaso dal dio dell'assist e con un piede al servizio di abilità illusionistiche per estrarre dal cilindro spazi impensabili ai compagni a cui restava soltanto di svelare il trucco, depositando il pallone in fondo al sacco di una concretissima rete. All’inizio del torneo Van Hanegem non sa ancora che il destino ha in serbo per lui una delle sue trovate più crudeli e beffarde. A completare quello che può sembrare uno sgangherato assembramento di fotomodelli capelloni arriva la ciliegina sbilenca sull'improbabile torta all'arancio: la convocazione del portiere semi professionista Jan Jongbloed. Per lui Gianni Brera, che non amava il calcio totale, non ebbe bisogno di indugiare a lungo nella sua inesauribile collezione di appellativi. Lo soprannominò il tabaccaio, in quanto era questo il vero mestiere di Jongbloed quando Michels gli chiese di vestire la maglia di terzo portiere per i mondiali del 1974. La convocazione  di questo 33enne portiere anarco surrealista lasciò tutti esterrefatti, compreso il convocato e quando nelle partite pre mondiale venne schierato titolare alcuni storsero il naso e gli altri risero forte. Jongbloed era sgraziato al limite della goffaggine e alcune sue caratteristiche (la magliette color giallo canarino, le ginocchiere bianche, la scelta di parare a mani nude con un incongruo numero 8 sulle schiena) sembravano giovare solo al suo folle personaggio.  Jongbloed, tuttavia, giocava benissimo coi piedi, fuori dai pali e in posizione di libero. Perfetto per quello che Michels voleva da un portiere. Alla fine del mondiale risultò il numero 1 meno battuto della competizione.
Jan Jongbloed

Il torneo inizia per l’Olanda con un cammino regolare. Vince agevolmente il girone eliminatorio e meraviglia in quello di semifinale, regolando con 4 gol l’Argentina, affondando con un 2-0 la Germania Est e presentandosi da favorita alla partita decisiva con i campioni in carica del Brasile. La partita fu la consacrazione del calcio totale. I brasiliani, costretti a ballare la samba fuori tempo dall’atletismo olandese tutto rock and roll, si comportano come ballerini ai primi passi, pestando in continuazione i piedi al partner. I verde oro non vedono palla, si innervosiscono, assestano mazzate come un Galles qualunque e, complice un arbitraggio condiscendente, la buttano in rissa. L’Olanda non si lascia intimorire, spezza il pane del football totale e vince 2-0 con gol di Neeskens e Crujiff. 
In finale una Olanda acciaccata dai pestoni carioca incontra i padroni di casa della Germania Ovest. È La forza irresistibile del calcio totale che lotta contra l’immobile resistenza della tradizione all'italiana. Per Wim Van Hanegem, lo storto centrocampista dai piedi fatati, però, non è solo la partita di calcio più importante della carriera. Nel settembre del 1944, infatti, il neonato Van Hanegem si è salvato da un furioso bombardamento nazista che accanendosi contro lo sperduto villaggio che abitava, gli ha ucciso il padre, un fratello e due sorelle. Da allora il subconscio lavora in lui con regolarità implacabile. Egli non vuole vincere la Coppa del mondo, vuole vendetta. Il boato dello stadio di Monaco dovette rievocargli il rombo degli aerei da caccia sul proprio villaggio, gli sembrò forse di rivedere nel manto erboso il luccichio del pelo di belva che gli latrava a pochi metri dal viso con denti d’acciaio e che sul punto di addentarlo lo risparmiò, portandosi via in cambio metà della sua famiglia. Negli spogliatoi esorta i compagni a “schiacciare i tedeschi” e la squadra lo prende in parola. Batte il calcio di inizio, realizza una nenia di 15 passaggi consecutivi in orizzontale, consegna il pallone a Crujiff che si fionda in area di rigore e lì viene atterrato.
È rigore che Neeskens trasforma in gol. L’Olanda è in vantaggio al primo minuto di gioco e la Germania non ha nemmeno toccato palla, in una perfetta apoteosi del calcio giocato dall’Arancia Meccanica olandese. L'accostamento non è peregrino. Come nella pellicola di Kubrick c’è qualcosa di nietzschiano nel luminoso dinamismo della squadra olandese, nel furore del pressing e nel selvaggio moto continuo di giocatori che si scambiano di posizione in un eterno ritorno all’uguale 4-3-3 di partenza. È Dioniso che gioca a pallone. Ma la Germania è pur sempre la patria di Nietzsche. Sotto di un gol, ci pensa un terzino ad alta densità filosofica, se non altro per la sua folta barba da presocratico, a rimettere a posto le cose. Si chiama Paul Breitner e occupa la fascia sinistra nel calcio e nella vita (in quest’ultima aggirandosi dalle parti di Mao). Quando si presenta l’occasione dal dischetto del rigore sceglie Occam e con una rasoiata dagli 11 metri recide la fantasiosa baldanza olandese. Sul punteggio di parità l’oscuro Berti Vogts pedina stretto il divino Crujiff con marcatura blasfema che ne dimostra per una notte l’inesistenza. Una notte sola, ma quella giusta. L’Olanda gira a vuoto intorno alla ferrea volontà di vittoria tedesca. Sul finire del primo tempo, il rapace Gerd Muller recupera un pallone che sembrava perso, indica con una finta a Jongbloed lo scaffale più alto della tabaccheria e lo lascia di sasso rubando dal bancone il bottino grosso: una coppa del mondo. Al termine della partita le lacrime più amare, lacrime da bambino, da incubo infinito, furono piante da Win Van Hanegem. A chi provava a consolarlo rispose: “non mi interessa se abbiamo giocato bene, loro hanno ucciso la mia famiglia, io li odio.” Sulle consolazioni dei secondi si fece poche illusioni anche Crujiff che congedò i mondiali del calcio totale con una frase perfetta: “Noi fummo i migliori, ma loro furono ancora meglio.”
Lo storto Van Hanegem

Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
 http://www.storiedicalcio.altervista.org/calcio_totale_olanda.html
http://calcioolandese.blogspot.it
http://calciatoricapelloni.wordpress.com
http://www.ciociari.com/Eco72/olanda.htm
http://www.youtube.com/watch?v=DsnK_4IWBWc
La rivoluzione dei tulipani di Alec Cordolcini Ed. Bradipolibri