mercoledì 17 ottobre 2012

E del sole che trafigge i lungomai che ne sai?

Peggio delle canzoni c'è solo... la critica delle stesse (P.P.)

Come molti mi sono innamorato un’estate in spiaggia, attorno ad un falò, cantando chitarra e voce (ero un po’ ubriaco) la canzone di Battisti che diceva: “così sei fortunato, hai trovato, il posto più esclusivo della storia: le pagine in cui Antonio con Cleopatra si strapazzano ancora come otarie”. O forse ero molto ubriaco e cantavo quella che recitava: “Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse e l’innocenza sulle gote tue due arance ancor più rosse”. 
Non mi ricordo più. Mi separano quasi 20 anni da allora, tanti quanti ne trascorsero per giungere dal verginale rossore della prima fidanzatina, inquinato dal mare nero dell’età adulta, alle acrobazie amorose consumate dai due amanti del mondo antico in versione leoni marini. Insomma quel lasso di tempo per passare da Battisti – Mogol a Battisti – Panella, dal successo inarrestabile all’incontenibile declino, dalle poetiche sentimentali e spesso un po’ stucchevoli alle poetiche ardite e frequentemente indecifrabili. Insomma: dal primo al secondo Battisti.
Tutto ebbe inizio nel 1980 quando Lucio Battisti congeda lo storico paroliere Mogol e nella sua ultima intervista imprime una traiettoria di non ritorno alla propria carriera: “Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l'immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L'artista non esiste. Esiste la sua arte"

Era un’affermazione arrischiata e alla prova dei fatti, nel caso in questione, l’assenza dell’artista parlerà più della sua arte. Ma questa volontà radicale e autodistruttiva che Lucio Battisti metterà a punto con ostinazione aveva del metodo e, a partire dal 1986, troverà uno strumento di dissonanza assoluta:  il poeta – paroliere Pasquale Panella che porterà il rapporto tra versi e note ben lontano dai territori di affinità fino allora conosciuti con le esperienze di Salvatore Digiacomo, del Cantacronache o di Roberto Roversi.
Panella è uno, per farvi capire il tipo,  che dice peste e corna delle poetiche di Dylan, Battiato e De André e poi, ineffabile, manda a Sanremo “trottolino amoroso dudu dadadà”. Un provocatore per il quale “scrivere le canzoni è come fare le rapine” e che, tuttavia, non disdegna di ritornare sul luogo del delitto. 
Quel che ci voleva all’inquieto musicista di Poggio Bustone per ribadire la propria libertà di artista e lanciarsi in una sfida di ricerca che i vecchi fan percepiranno come punitiva, mentre i critici vi leggeranno quasi all'unanimità i segnali di un cupo desiderio di dissolvimento.
Per Panella, invece, si tratta di un intervento dichiaratamente oppositivo alla canzone (un atteggiamento che qualche anno dopo troveremo anche nella empia collaborazione del filosofo Manlio Sgalambro con Franco Battiato), una sfida al musicista che lo obblighi a cercare soluzioni impensate, in un duello ora enigmistico per solutori più che abili, ora quasi fisico nel corpo a corpo di incastrare testi impossibili nella struttura della forma canzone. La canzonetta che prima di allora era stata arte, scienza, passatempo, impegno, diventa per la prima volta campo di battaglia.

L’avvio è, tuttavia, piuttosto pacifico e mette d’accordo nel 1986 critica e pubblico. “Don Giovanni” è un disco sontuoso, che si apre con  “Le cose che pensano”,  un inno al passato remoto che diverrà marchio di fabbrica melodrammatico nella collaborazione con Amedeo Minghi e che Battisti renderà invece una tantum con profonda e commovente malinconia. (In nessun luogo andai/per niente ti pensai/e nulla ti mandai/per mio ricordo/Sul bordo m'affacciai/d'abissi belli assai/Su un dolce tedio a sdraio/amore ti ignorai/invece costeggiai/i lungomai ). Spicca anche il brano che dà il titolo al disco, una dichiarazione di poetica da cui tralucono gli esiti futuri della collaborazione (l’artista non sono io/ sono il suo fumista). Il disco vende molto, occupa la prima posizione in classifica (sarà l’ultima volta per un lavoro di Battisti) ed è sicuramente un pezzo irrinunciabile per ogni amante di musica italiana. Forse tutto troppo facile. Ed è Panella a scompaginare le carte con un primo gesto teppistico. Propone di invertire il metodo compositivo. Da quel momento sarà lui ad inviare i testi e Battisti a musicarli.
La prima prova del nuovo stile è, a distanza di due anni, “L’Apparenza” il primo album dalla copertina bianca e l’ultimo capolavoro di Lucio Battisti. La grafica algida e minimale, l’assenza dei testi, le scarnissime note di copertina sono un manifesto sconcertante del nuovo corso. Mancava persino il video per il lancio del singolo "L'apparenza" e la RAI si arrangiò con una geniale trovata di Vincenzo Mollica che utilizzò scene del film “L’uomo invisibile”.
Nel disco Battisti oppone alla presenza di un sabotatore nella propria officina musicale, un espediente sonoro di grande efficacia. La strategia adottata è quella di sommergere i testi precipitandoli in un vortice di note che ne ottundono le asperità. E sebbene affiori qua e là il nervosismo di qualche brano in cui musica e testo si prendono a spintoni, la composizione è per il resto quasi sinfonica e, quando il testo panelliano è sinceramente poetico, si può gridare al capolavoro come nel caso della operistica “L’apparenza” o nell’incedere drammatico di “Specchi opposti” o ancora in “Per nome”, una canzone in cui  la musica ci rimanda ad un luogo meridiano e assolato, mentre il testo, invece di parlarci di amori estivi e spiagge saettate da tramonti, racconta la sublime svagatezza che rafforza un nome proprio.

Con la solita cadenza biennale, nel 1990, la strana coppia congeda “La sposa occidentale” dove si manifesta chiaramente la colluttazione in atto, con il paroliere nella parte del puglile cattivo (“Io ricerco la via del fallimento più concreto” dichiarava all’epoca) che si diverte a minare il campo avversario e a cospargerlo di cavalli di Frisia, esponendo il cantante alla trappola del ridicolo di fronte all’insonorità dei versi. L’ascoltatore è obbligato ad allontanarsi dall'abituale maniera di concepire e fruire i testi e ad accettare che è in corso uno scontro per cui non c’è da meravigliarsi se con una certa frequenza escano fuori canzoni con gli occhi pesti e il labbro sanguinante. Nella "Sposa occidentale" Panella mette a repentaglio il musicista con il micidiale uno-due delle rime (“gli aggettivi catarifrangenti/infranti e lucenti” oppure “assumi pose inesplose”), l’uppercut dei neologismi (“la ciceronessa”), il gancio sinistro dei diminutivi (la linguetta rosa, la preghierina, il ruscelletto, la capretta), il diretto degli scioglilingua (“"la lotta dei cuscini/senza sonno che spiumano, che..fanno zampilli di pollini che pullulano/aggressivi, irsuti, istigatori di starnuti. ). Insomma, tu chiamale se vuoi cifrazioni.

L’opposizione di Battisti a questo diluvio di parole - proiettili è quasi eroica. Se lo sforzo chiesto è disumano, ecco che spariscono gli archi e gli strumenti e suonano i bit delle macchine. La voce diviene gelida, chirurgica, quasi un metronomo. Viene da pensare che a cantare sia un attonito robot. L’album riscuote un certo successo commerciale anche grazie alla title track in cui Battisti è alle prese con la lunga elencazione di omaggi di un amante sbruffone alla sua donna. Il problema del rapporto tra i versi e la costruzione sonora  è risolto con almeno un paio di colpi di genio. Battisti innanzitutto non rinuncia ad un embrione di ritornello, ma lo miniaturizza, preparato da una lunga cantata a precipizio e riducendolo al solo titolo per poi essere superato di corsa da altre funamboliche trovate linguistiche. Sulle parole “La sposa occidentale che sembra quasi ridere/ e invece lei respira,quasi piangere, ma gira ......” la musica procede in autonomia per alcune battute, quasi dimenticandosi che il verso non si è ancora concluso. Poi riprende, come se nulla fosse con: "dall'altra parte il viso/ ma ritorna portando sue notizie inaspettate." Se gli esegeti panelliani hanno pensato che il paroliere volesse descrivere l'orgasmo della sposa, noi ci accontenteremo di una piena soddisfazione acustica. 

È comunque a partire da questo album che la nostalgia del Battisti mogoliano comincia a farsi acuta nel grande pubblico. E con essa l’ossessione per la sua figura di stella eclissata. Cominciano a circolare foto rubate da paparazzi o da qualche fan spietato: Lucio con le buste della spesa al supermercato, Lucio sgranato in canottiera, Lucio che entrando in auto mostra il dito medio alla macchina fotografica. Lo stesso dito che avrà mostrato a Panella nel 1992 quando il paroliere gli confeziona gli 8 brani di C.S.A.R. sempre più impervi, portandoli, sulla strada dell’estenuazione linguistica, al parossismo.
Ancora una volta, per uscirsene, Battisti sperimenta trovate di ogni tipo. La forma canzone viene sempre più destrutturata e portata sui territori più vari. Panella inventa testi metropolitani costruendoli come sceneggiature e Battisti passa dal cupo techno della traccia iniziale “Cosa succederà alla ragazza” al rap di “Ecco i negozi” dove il genere imbocca per la prima volta la strada che dal ghetto della periferia conduce al  centro commerciale, mentre le stereotipe rabbie e violenze dei rapper si stemperano, con la solita glaciale voce scandita “in una negligenza ed oblio di sciarpe”. E con i ritmi sostenuti arriva anche una giocosa, cinematografica e quasi orecchiabile “La metro eccetra…”
L’album, tuttavia, spiazza quasi tutti. Qualche recensore invoca il ricovero coatto per Battisti, altri citano il giudizio critico di Fantozzi alle prese con la visione della Corazzata Potemkin.

Ancora due anni e nel 1994 esce Hegel, l’ultimo album di Lucio Battisti. Panella questa volta cala il musicista in un labirinto eretto coi muri freddi e scientifici della filosofia occidentale. Battisti prova a portarsi il filosofo in discoteca, indugiando più del dovuto sul famoso falsetto, ma alla prova dei fatti, cinto d'assedio, si perde nella monotona erranza degli spazi concessigli da Panella. L’album venderà appena 100.000 copie e gli alienerà anche il grosso della critica. Hegel è, in fondo, il pop che fagocita sé stesso. La contemporanea sconfitta e trionfo del duo.

Allo scadere del biennio successivo Battisti non pubblica l’album atteso, mentre Panella fa sapere che la collaborazione è finita. L’assenza di Battisti continua ad essere rumorosissima. Una trasmissione TV lancia l’infame iniziativa degli Abbattistamenti con cui si invitano gli spettatori a segnalare la presenza di Lucio Battisti sul territorio italiano anche con foto e video. Nel 1998, allo scadere del secondo biennio senza la voce di Battisti, rockol.it confeziona una bellissima beffa e il 31 marzo annuncia l’uscita del disco “L’asola” con tanto di disegnino minimale di un bottone e 13 titoli di canzoni. Il giorno successivo molti giornali abboccano al pesce d’aprile (l'acrostico delle iniziali delle 13 canzoni formavano proprio questa parola) implicito nella sciarada L’asola – la sòla ovvero, con perfetto stile panelliano, il modo romanesco per indicare una bufala.

A settembre, invece, non è uno scherzo la notizia della morte del cantante che diventa uno psicodramma collettivo da cui la nazione si libera cantando ad ogni occasione le canzoni composte da Battisti sui testi di Mogol (o viceversa).
A suggellare l’incomprensione totale del lavoro del secondo Battisti ecco gli illuminati discografici del periodo bianco proporre una raccolta postuma dei 5 album (incredibilmente riassunti su 3 supporti in barba a qualsiasi criterio filologico) col titolo “L’incontro”. Fortunatamente Pasquale Panella, interpellato, impose come titolo "Il cofanetto” per tautologia e con un rimando tombale all’esperienza di chi ha tentato di  coinvolgere l'arte musicale nella dissoluzione della propria (la poesia ridotta ad aforsima, scioglilingua, arguzia, verso per canzone che la musica cosparge, come petali, di note.) È curioso notare, insomma, quanto Panella sia stato un atteggiamento del Battisti più misantropo e Battisti il rappresentante di un’arte ignara che nonostante i parolieri è tale. 
Concludendo: Battisti, che rimane un grande maestro dell'arte canzone è riuscito a suscitare più di altri il dibattito sul valore del "testo" e della "musica", considerate come entità autonome. Il bello della canzone, però, è che non si dà come tale se non nella mistura esclusiva di parole e musiche (no, non servono nemmeno pensieri e parole). Purtroppo il silenzio che l’artista si era imposto lascia il campo a qualsiasi interpretazione in merito. Lucio Battisti era consapevole di questa sconvolgente, contraddittoria innovazione? Al momento è impossibile chiederglielo. Come diceva il poeta (quello? Quell’altro?) lo scopriremo solo morendo.

Se questo post contiene qualche momento di piacevolezza, lo devo a mio fratello Antonio che mi ha scritto la musica. 


Fonti, rimandi, ispirazioni, fanatismi:

Il gruppo di discussione su newsland
Una recensione favorevole di Hegel 
Pensieri e parole, ma di Panella 
Una recensione sul cofanetto 
Battisti Panella sul Tellusfolio  

Specchi Opposti. Lucio Battisti. Gli anni con Panella di Ivano Rebustini Ed. Arcana