sabato 24 marzo 2012

Bruno Lauzi: la libertà è un ufficio in riva al mare

"Secoli di pregiudizi della borghesia nei confronti degli artisti hanno portato gli artisti ad avere pregiudizi nei confronti della borghesia. D’altra parte, dareste vostra figlia a un chitarrista?” (B.L.)

Bruno Lauzi aveva quella faccia un po’ così e quell’espressione un po’ così di chi ha visto Genova dopo essere nato all’Asmara. Che dovesse prendere le cose della sua vita alla lontana, quindi, era scritto. E lo stesso bizzarro Autore che si è assunto l'incarico di scriverne l'esistenza, si deve essere divertito a racchiudere nella fisicità di questo buffo piccolo uomo riccioluto le più impensabili moltitudini d’artista: il cantautore, il poeta, il raccoglitore di funghi, il cabarettista, il cantante, lo scrittore, il traduttore, il politico, il viticultore, l’appassionato di cinema e fumetti. Il divo no. Il famoso, nemmeno, se è vero che si divertiva ad elencare tutte le persone (preferibilmente con la Z nel nome) per cui era stato scambiato nelle sale d'attesa d'aeroporto: Ezio Luzzi, Lino Toffolo, Lando Buzzanca, Umberto Tozzi, Giorgio Albertazzi, Pino Rauti, una volta persino per “uno che assomiglia a Bruno Lauzi.”

L’occasionale interlocutore non poteva commettere errore più rivelatore. Lauzi nel panorama musicale italiano non assomigliava che a sé stesso. A partire dalla sua collocazione politica non di sinistra, per finire con l’ostinato voltafaccia che gli ha riservato il successo commerciale. Sempre mantenendo il buon gusto e il buon senso di non attribuire alla sua appartenenza politica liberale l’infelice esito delle canzoni in classifica e senza fare grandi proclami in nome della coerenza, la più noiosa e meno artistica delle virtù. Così, ad oggi, le canzoni che Lauzi ha scritto sono famose  per le interpretazioni di altri cantanti  e quelle che ha interpretato sono molto più conosciute nelle versione dei propri autori (Conte e Battisti su tutti).


E nonostante questa costante invendibilità, che sarebbe risultata letale per molti artisti, Lauzi non ha mai perso il favore del pubblico e la conseguente consapevolezza di essere un privilegiato. Amava dire che per lui la vita si era trasformata in una vacanza ed in vacanza è impossibile prendersi troppo sul serio. Per questo, quindi, ha vissuto con divertimento i fasti e i fiaschi della sua carriera, ma non si è fatto mancare di additare all’Italia sempre sospesa tra il pettegolezzo e l’agiografia, le miserie di impresari, discografici e noti colleghi (per alcuni, necessariamente, anche dopo la morte, quando la santificazione diventa obbligatoria), i capricci insopportabili delle dive nostrane e l’ottusità dei dirigenti della RAI. Da qui la sua fama di tipico genovese: mugugnatore di professione, rompicoglioni, polemico, imprevedibile e, in fondo, irresistibilmente simpatico.

La carriera artistica di Lauzi comincia con un compagno di banco di nome Luigi Tenco. Insieme cantano e ballano le note dei film musicali americani e insieme suonano il jazz sulla terrazza di casa Lauzi. Insieme sono tra i fondatori della scuola genovese, ma guai a dirlo a Lauzi che sull’argomento  era solito rispondere che le scuole prevedono maestri ed allievi, mentre lui, Tenco, Bindi e Paoli erano tutti sullo stesso piano. In quell’ambiente compone la sua prima vera canzone, una gemma che è anche il brano manifesto della scuola genovese: "Il poeta", in cui il protagonista si uccide per amore. Posto di fronte al dilemma di cedere alla censura, tagliando il verso del suicidio, o di non passare in radio, Lauzi sceglie la via che gli impone l'Arte. La canzone rimarrà ignota ai più, almeno finquando non la riprende Gino Paoli. Simile dilemma, su ben altro piano, gli riproporrà l’amico Tenco a distanza di pochi anni, sparandosi a Sanremo un colpo di rivoltella. Un gesto lacerante, che Lauzi non accetterà mai, combattendo anche tutti i tentativi di celebrare l’eroe Tenco vittima del sistema (e i cannoneggiamenti lauziani non risparmieranno neanche la pur splendida "Preghiera in gennaio" di De André).

Sempre agli inizi degli anni ’60 si trova ad ascoltare un disco d'importazione con musiche tratte dal Carnevale di Rio. Incuriosito da alcune espressioni che gli ricordano il dialetto genovese, Lauzi compone a ritmo di samba “O frigideiro”, una canzone finto carioca che celebra in dialetto genovese l'oggetto del desiderio delle famiglie italiane dell'epoca: il frigorifero. Con un ghigno brasileiro era nata la canzone etnica italiana e “O frigideiro” indicherà a molti autori la giusta strada (o, se preferite, la giusta “creuza de ma”.) “O frigideiro” schiude a Lauzi le porte del cabaret, dove dimostra le sue doti di grande intrattenitore prima al Derby e poi al Cab64, locale in cui stringe sodalizio con Cochi e Renato, Jannacci  e Lino Toffolo.  Ma nel 1963 una sua canzone, composta in pochi minuti ispirandosi a un bolero, il ritmo che più si addice ai cicli, comincia ad essere cantata con successo. E' "Ritornerai", che alla fine di quell’estate risulta la canzone più suonata nei Juke box italiani. Quasi tutti, però, ne ignorano l’autore che è impegnato col servizio militare. Quando sull’onda della curiosità potrà interpretarla in televisione, le vendite del 45 giri si arresteranno di colpo, episodio che il cantautore commenterà con la solita grande autoironia. Il decennio proseguirà con una infelice presenza a Sanremo, dove porterà un valzer in piena era beat, e una serie di brani d'autore che non fanno breccia nel pubblico. Nel '68 celebra la propria rivoluzione: si sposa con Giovanna che sarà la sua compagna di tutta la vita. La carriera di Lauzi, tuttavia, è ferma alla vendita di poche decine di migliaia di dischi in anni in cui bastava avere un cuore che ti amava tanto o baciare come un rock per arrivare a risultati di mercato dieci volte superiori. Si consola con il buon successo delle traduzioni, un altro dei suoi talenti, soprattutto per la Vanoni e Moustaki (suoi i testi italiani di "Lo straniero" e "L’appuntamento”).

Agli inizi degli anni ’70 avviene l’incontro che cambierà la carriera di Lauzi. Entra a far parte della Numero Uno, la scuderia di Mogol e Battisti che scrivono per lui una serie di brani, culminati nella famigerata “Amore caro, amore bello” 45 giri che catapulta il piccolo uomo in cima alle classifiche per tre settimane consecutive e rende riconoscibile al grande pubblico la sua voce vibrata con quel caratteristico filo di ruggine che regala una forte virilità alle interpretazioni. Lauzi, però, non fa mistero di detestare "Amore caro, amore bello". In effetti la canzone è affetta da mogolite allo stadio acuto, la malattia tipica della produzione di Rapetti, che compone versi il più delle volte demenziali che però (San Giovanni Battisti, aiutaci tu!) funzionano e fanno gridare alla poesia. Lauzi non è certo il tipo da sputare nel piatto in cui mangia, ma ha un senso acuto dell’Arte ed è poeta vero egli stesso. Non manca, così, di dedicare un paio di versi all’arsenico a Mogol, che irridono il modo di comporre versi del paroliere.
Le pubbliche relazioni, insomma, non sono il suo forte. Se ne accorgeranno il Piccolo Teatro di Milano, reo di essersi accorto di lui solo quando è finito in hit parade, Ugo Gregoretti, che lo invita al Festival dell’Unità e si sente rispondere: “prima liberate gli artisti sovietici dai gulag!”, persino un incolpevole Federico Fellini che dopo essere stato pregato dal cantautore, gli offre la parte di un ufficiale prussiano in "Casanova", offerta che Lauzi declinerà dandosi malato, perché impegnato in un programma TV. A volte non basta essere nati all’Asmara, per non essere italiani.
Le vendite dei suoi dischi a 33 giri rimangono modeste, ma il successo tornerà a sorridergli col volto dei bambini. Due sue canzoni composte con Pippo Caruso per i più piccoli, "La tartaruga" e "Johnny il Bassotto"(affidata a un perplesso Lino Tofolo), gli regaleranno ancora i primi posti della hit parade a metà anni ’70. Nel frattempo ha conosciuto un giovane avvocato di Asti, che gli sottopone alcuni brani, ponendogli la domanda sbagliata: "Ma tu, vendi dischi?". Lauzi rimane folgorato dalle canzoni, ma fa presente al giovane autore di avere proprio il problema della invendibilità. L’avvocato insiste. Si può immaginare il rendez vous in un caffé di Rocchetta Tanaro, tra odori di coloniali e frittate di cipolle che escono da botteghe in primavera, afa, sonno, nausea e la cassiera di Chinatown, fasciata nel nero della sua lingerie, che con sguardo da caimano chiede: "Le paga Lei signor Buzzanca le caramelle alascane che il signore coi baffi si è messo in tasca?". 

Alla fine il disco si fa. Lauzi canterà “Onda su onda”, poi “Genova per noi” e “Bartali”. Le canzoni vengono cantate dalla gente e osannate dalla critica, ma le vendite del disco sono, come al solito, basse. Per quegli strani meccanismi del mercato, Lauzi sarà il viatico per la carriera internazionale di Paolo Conte, che dopo aver definito il suo scopritore "il migliore ambasciatore della mia musica", non mancherà di riservargli in seguito qualche sprezzante considerazione, fino a fumare con lui il sigaro della pace nel disco "Back to Jazz". Scaramucce tra artisti affini, insomma, ma nulla in confronto ai capricci che angustiarono Lauzi alle prese con le stellette musicali italiane. Da Mia Martini che voleva cambiargli il testo di una delle più belle canzoni sanremesi di sempre “(Almeno tu nell’universo”) a Patty Pravo che rifiutò di collaborare col piccolo uomo “perché l’oroscopo era infausto”.
Fu così, che quando scoprì di essere malato di Parkinson, Lauzi deciderà di scendere a patti con Dio o con Chi per lui: la paziente accettazione della malattia in cambio della possibilità di assestare una pedata sul culo alla Strambelli. Per farla girare davvero, la “Bambola” veneziana!
Gli ultimi anni di Lauzi, dunque, sono flagellati dalle malattie. Affronta il morbo di Parkinson con grande coraggio e la solita autoironia (si dirà contento di poter suonare finalmente le maracas). Si dedica al jazz e alle poesie e affida alle stampe un umorale e pirandelliano romanzo dal titolo “Il caso del pompelmo levigato”. Scopre di avere tra i suoi ammiratori anche Gabriel Garcia Marquez che durante una serata italiana pretende dall’autore di "Ritornerai"  l’autografo. È un testimone eccentrico anche della discesa in campo di Berlusconi per cui ha simpatia umana e affinità politica, ma a cui diagnostica la malattia di Peter Pan di cui è affetta l'Italia: un'eterna adolescenza fatta di gadgets, spille, cartellette, battute e musichette a ritmo di marcetta (orribili, ma pur sempre meglio di bandiera rossa, terrà a precisare), che ci restituiscono un personaggio quasi timburtoniano, impegnato in un gioco dai meccanismi pericolosi per sé e per gli altri.

Continuerà a ritenere “Il poeta” la sua prima e più bella canzone, chiosando a corollario che da allora e per 50 anni non ha fatto che peggiorare. Ovviamente si sbagliava, valga per tutti l'esempio della commovente "L'ufficio in riva al mare", una involontaria risposta all’amico rivale Giorgio Gaber sul fatto che la libertà non è partecipazione. Oltre a pubblicare diversi libri di poesie e la propria imperdibile biografia in controcanto, si impegna come testimonial per i malati di Parkinson e a Mr Parkinson dedica anche dei combattivi versi. A fine 2005 si ammala di cancro. Continuerà ad esibirsi dove la gente lo chiama, senza appoggiarsi a case discografiche o impresari. Ormai malato terminale, dopo 26 anni di burrasche, arriva anche la pace con il Club Tenco, che gli dedica l’edizione del 2006. Morirà un mese prima di poter ritirare il premio che porta il nome dell’amico, chiudendo così una carriera che con lo stesso nome era iniziata. Immagino che da qualche parte Qualcuno avrà acceso il juke box e messo quel disco al ritmo di bolero (almeno Tu, Autore, potevi comprarlo, che diamine!). TV Sorrisi e Canzoni, che negli anni ’80 lo fece arrabbiare non includendolo tra i primi 100 cantanti italiani, esce alla sua morte con una tripla raccolta. I curatori non ebbero il coraggio di intitolarla, come sarebbe sicuramente piaciuto a Lauzi, “I miei grandi insuccessi”, e virarono su un più neutro “Le mie canzoni”. Sicuramente, nella generale incomprensione con cui è stato accolto dal suo paese,  Lauzi ha lasciato più crediti che debiti, ma per uno che ha considerato sempre la vita come una lunga villeggiatura, non deve essere stato importante sapere se questa vacanza è stata vinta o pagata fino all’ultimo centesimo. È stato importante viverla. Tanto più se si ha avuto il talento (che è di pochissimi) di trasformare l'effimero in arte. Così, convinto come era che anche il cantautorato sarebbe stato destinato a scomparire dalla memoria, non starò qui a parlare di eredità, ma voglio augurarmi che i pazienti lettori di questi pixel possano stringersi come congiurati nel preciso dovere di portare a termine almeno una missione riparatoria. Affinché l'oblio non cada prima che Dio o Chi per lui rispetti per interposta persona l’accordo stretto col piccolo uomo, proponendo prima o poi alla portata del nostro piede vendicatore le terga di Patty Pravo.

Sono debitore ad un articolo di Michele Agresta per la riscoperta e l'approfondimento di Bruno Lauzi. Grazie.
Tutte le foto sono tratte dal sito www.brunolauzi.it


Fonti, rimandi, fanatismi ed ispirazioni:
La pagine di wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Lauzi
Il sito ufficiale: http://www.brunolauzi.it/
Tanto domani mi sveglio. Autobiografia in controcanto di Bruno Lauzi Ed. Gammarò Editore
Il caso del pompelmo levigato di Bruno Lauzi Ed. Bompiani

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