Pagine

martedì 24 luglio 2012

Sul polo sventola bandiera bianca

Il telegramma diceva: “Permetto informarla che Fram procede per Antartide”. La firma era un ruggito nel nome di Roald Amundsen. 
Robert Falcon Scott, a capo della spedizione Terranova, capì subito che quei pochi punti di inchiostro nero sulla distesa bianca del foglio stavano per prefigurare, agli occhi di una spietata divinità del gelo, la drammatica competizione che lo avrebbe opposto ad Amundsen nelle vastità antartiche. Una competizione per essere il primo uomo a raggiungere il Polo Sud.

Robert Falcon Scott, ufficiale di marina inglese, non aveva una passione innata per i ghiacci. Per non essere inghiottito dalle sabbie mobili di una carriera anonima, tuttavia, non gli restava che fare leva su imprese  straordinarie. Nel 1901, dunque, si fece nominare capo spedizione della nave Discovery, per la prima esplorazione del continente antartico. La Discovery raggiunse notevoli risultati scientifici e portò lo stesso Scott, insieme all’amico Edward Wilson e ad Ernest Shackleton, fino a 480 miglia dal polo sud. Nel 1909 lo stesso Shackleton, questa volta senza Scott, arrivò a sfiorare l’impresa ordinando il rientro alla base a soli 180 chilometri dalla meta a causa delle pessime condizioni meteo e di salute del gruppo che capeggiava, passando nuovamente il testimone a Scott.

Roald Amundsen
Roald Amundsen, norvegese, era invece un veterano dei ghiacci del nord tra cui si era mosso fino a scoprire il leggendario passaggio a nord ovest. Quando seppe che sul polo nord accampavano pretese di conquista ben due esploratori americani, rivolse le sue attenzioni all’inviolato Antartide. Raccolse ufficialmente i fondi per una spedizione nel mare Artico e salpò con la nave Fram dichiarando che si muoveva per raggiungere lo stretto di Bering. Dava così al mondo intero (e principalmente a Scott)  l’impressione di voler battezzare col nome del re di Norvegia qualche baia o tratto di mare boreale. Solo in pieno Oceano Atlantico, nel porto di Madera, comunicò all’equipaggio le sue reali ambizioni. Ottenne il consenso di tutti e spedì il suo telegramma a Scott che, ostentando imperturbabilità, non potè far altro che raccogliere il guanto di sfida.

La gara che si consumava in Antartide nel biennio 1910 - 1912 vedeva fronteggiarsi due uomini e due concezioni diverse dell'esplorazione. L’audacia, la sfrontatezza, l’organizzazione puntigliosa, l'affiatamento tra uomini e animali, la rapidità di azione e di pensiero dalla parte di Amundsen; sul territorio di Scott, invece, si dispiegava la costellazione disegnata dall’inclinazione puritana del suo tempo: un luccichio di arroganza cortese, distacco, buona educazione, sherry da bere a fine cena e, su tutto, la responsabilità del buon nome di una intera nazione.

Inglesi e norvegesi si accamparono nell'avamposto della barriera di Ross agli inizi del 1911. Scott era deciso a seguire le orme della spedizione di Shackleton del 1909 e quindi a muoversi su un territorio già battuto e descritto fino a 180 km dal polo. Amundsen fece base più ad ovest, in un punto più vicino di 100Km alla meta rispetto al rivale, ma con un territorio interamente inesplorato. Amundsen pianificò la sua missione con precisione da laboratorio chirurgico. Commise un unico errore a cui riparò facilmente. Ipotizzando l’imminente arrivo della primavera e bruciando di impazienza, partì alla volta del polo ad inizio settembre del 1911 per poi tornare alla base dopo 7 giorni, ricacciato indietro dalle incalzanti bufere. Attese quindi il mese di ottobre e ripartì con  4 suoi compagni, trasportando delle slitte ultraleggere al traino di una muta di cani addestrati.
Scott si mosse, invece, il primo di novembre 1911, con 14 compagni, due motoslitte, 10 pony della Manciuria e ventitré cani. Già al quarto giorno le motoslitte erano inutilizzabili (“le macchine tradiscono il sogno”, scrisse Scott nel suo diario). Ai primi di dicembre tutti i cavalli, su cui aveva fatto grande affidamento, erano stati abbattuti per manifesta inadeguatezza a sostenere l'ostilità del clima. L’11 dicembre il capitano diede l’ordine di rimandare indietro, insieme ai 4 uomini più stanchi, anche i cani, animali superbi, ma che nessuno sapeva governare. Il 4 gennaio 1912, infine, Scott decise di proseguire per il polo sud con una spedizione di 5 uomini, rispetto ai 4 programmati. Portava con sé l'amico di sempre e responsabile scientifico della missione, dottor Edward Wilson, l’ufficiale Henry Bowers, il Capitano dell'esercito Lawrance Oates, detto il Soldato e, a sorpresa, il sottoufficiale Edgar Evans, scelto per le sue straordinarie doti di resistenza. In assenza dei cani, si incamminarono sui ghiacci trainando a braccia le pesantissime slitte, nell’unica soluzione che parve onorevole a Scott per compiere l’impresa.

Il capitano annotava meticolosamente sul suo diario le vicende di quei giorni. Nelle pianure che si susseguono ai ghiacciai, sul fondo dei crepacci, nelle cime spazzate da venti forsennati, l’Antartide ci appare il luogo in cui la natura si mostra all’uomo nel suo volto più diabolico e insondabile, lasciando riconoscere a chi esamina i fatti, però, la sua livida ironia. Il 17 dicembre Scott si mostrava rinfrancato, descrivendo i suoi come degli studenti di college in gita: “trainiamo le slitte in canottiera e siamo abbronzati. Forse la nostra fortuna sta girando.” L'unico ad aver girato, invece, era Amundsen che, dopo aver raggiunto la boa del polo sud 3 giorni prima, si incamminava verso il ritorno alla base in quella che fu ingenerosamente definita la più lunga corsa sugli sci della storia.
La spedizione inglese

Ignaro di tutto, il 6 gennaio 1912, il gruppo di Scott superava il punto estremo raggiunto da Shackleton 3 anni prima. Per quanto a loro conoscenza, si trovavano alla latitudine più meridionale mai toccata da uomo. L’entusiasmo durò pochi giorni. Il 16 gennaio Bowers avvistò tracce di cani e una bandiera nera con i resti di un campo. Scott non si fa illusioni e annota: “Mi dispiace per i miei leali compagni, sarà un ritorno penoso.”

Praticamente seguendo le tracce dei rivali, il 18 gennaio 1912, alla latitudine di 90° sud trovarono una tenda e la bandiera norvegese piantata da Amundsen 35 giorni prima. Irrigidito dal gelo, il tessuto non sventolava, agitandosi lugubre al vento polare. Dentro la tenda Scott trovò, a lui indirizzata da Amundsen con un omaggio crudele, una lettera da consegnare al re di Norvegia per testimoniare, nel caso fosse perito nel viaggio di ritorno, il proprio successo al mondo.
Nel diario si legge: “Questo è un posto spaventoso ed è terribile per noi aver faticato tanto per arrivarci senza il premio di essere i primi.” Agli estremi del mondo, Scott, addestrato alle evenienze più terribili, si faceva sorprendere dall’esperienza più frequente nella vita, la sconfitta. Neanche quella realtà capovolta, tuttavia, poteva scardinare le coordinate esistenziali tracciate sulla mappa della sua educazione vittoriana. Gli uomini come lui, quando subivano una delusione, erano stati educati a rifugiarsi nel silenzio e Scott, nella circostanza decisiva della sua esistenza, incoraggiato da quei luoghi inumani, dall'assurdità di un punto che, a differenza del suo opposto, non ha neanche una stella a calamitarlo su di un cielo triste, scelse il silenzio definitivo ed assoluto.

A chi legge il diario pare che non si più lui a scrivere, ma un personaggio che gli entra impercettibilmente nelle ossa più del ghiaccio, un personaggio che prepara un’uscita di scena onorevole, trasformando il fallimento in elegia, il secondo posto in un trionfo sentimentale.
Il ritorno di Scott e dei compagni diventa un percorso allucinatorio di cui il diario è un fedele ambasciatore. Scrivere non è più un modo per fermare il presente ancorandolo nelle rade del ricordo, ma un nobile espediente per sopravvivere nel futuro. Nei pressi del campo norvegese, con gli arti già aggrediti dal gelo, il capitano dovette vedersi come un anziano mutilato che avvolge le sue amputazioni nella Union Jack, costretto a tenere conferenze sulla propria umiliazione ad un ozioso pubblico per mantenere la famiglia o a pubblicizzare un libro di memorie per difendere la propria condotta. 
L'itinerario di Scott e quello di Amundsen. Dal sito www.windoweb.it

Dopo le foto di rito, foto tetre, accanto alla bandiera inglese, Scott scrisse di avere un solo pensiero: tornare alla base il prima possibile. Il 7 febbraio, tuttavia, concesse incongruamente a Wilson e Bowers una mezza giornata geologica per raccogliere fossili.
Con la delusione che brucia sottopelle più del gelo, la situazione precipita. La scelta di un uomo in più si rivela in tutto il suo azzardo quando cominciano a scarseggiare i viveri. Tra il 17 e il 18 febbraio muore il primo uomo della spedizione, Evans, scelto per la sua robustezza di militare che non era mai stato ammalato. Si spegne lentamente, inebetito da una commozione cerebrale rimediata due settimane prima nella caduta in un crepaccio.
Il freddo, lo scorbuto, la fatica, lo scoramento, si abbattono sui 4 superstiti come gelidi cavalieri dell’Apocalisse. Oates, il gigantesco Soldato, colui che non si arrende mai, ha un piede congelato e prega per la prima volta i compagni di lasciarlo  indietro, per non rallentare la loro marcia. È il 7 marzo e Amundsen, arrivato sulla terra ferma, sta telegrafando al mondo il suo successo.
Lawrance Oates
Il 16 marzo Oates, con gli arti incancreniti, è consapevole di essere spacciato e di rappresentare un ostacolo alle speranze degli altri. Guarda quei compagni muti che non hanno più la forza di incoraggiarlo in risposta alle sue  richieste di separarsi e tuttavia non lo abbandonano. Con grande fatica, durante una tempesta di neve, infila ai piedi gli scarponi ed esce dalla tenda salutando i compagni con il più commovente degli understatement: "Sto uscendo, può darsi che rimanga via un po' di tempo". Era il giorno del suo 32esimo compleanno e si trovava a 79° 28’ di latitudine sud ad oltre 17.000 Km da Londra. Nessuna primogenitura scandinava potrà togliere  a quelle distanze le stimmate dell'Inghilterra che il Soldato Oates lasciò assieme al suo corpo.
I tre superstiti procedono lentissimamente, ormai senza più cibo e combustibile per sciogliere la neve e dissetarsi. Il 21 marzo una tormenta li inchioda per giorni ad appena undici miglia dal deposito di One Ton che conteneva, appunto, una tonnellata di approvvigionamenti. In quelle condizioni di sfinimento, a 40 sotto zero, con lo scorbuto che li divorava, 11 miglia erano come 11 anni luce.
Scott presagisce la fine e affida lucidamente al diario lo slogan che lo avrebbe accompagnato alla fama: “Fossimo sopravvissuti avrei avuto per voi una racconto sull’ardimento, la resistenza e il coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni britannico». Senza più la forza di morire sulla pista, come avrebbero voluto, andarono incontro alla fine intorpiditi dalla febbre, sprofondando nella morte, come nel sonno. Il 29 marzo è verosimilmente l’ultimo giorno di vita di Scott. La pagina del diario riporta la frase: “Sembra un peccato, ma non credo di poter scrivere altro.” Poi affida la cura dei familiari all’amore di Dio, l’unico che al Polo Sud c’era stato prima di Amundsen.
L'ultima pagina
del diario di Scott
Quasi nove mesi dopo quel giorno una squadra di soccorso mandata incontro alla spedizione polare trovò la tenda e i tre cadaveri congelati. Nel groviglio della tempesta e dei sentimenti Scott aveva scelto di morire abbracciando l’amico Wilson. I soccorritori non poterono far altro che recuperare gli scritti, le pellicole fotografiche, i disegni, i fossili. Lasciarono cadere sui corpi la tenda, vi accumularono sopra un tumulo di neve e vi posero in cima degli sci messi in croce.
La notizia della morte di Scott commosse il mondo intero e oscurò come un inverno antartico l’impresa di Amundsen e delle sue slitte trainate dai cani. Quella che per Amundsen rimaneva una delle tante possibili maschere della gloria, un qualunque podio riservato ai competitori sportivi, per Scott si tramutò in elegante destino, in un posto nell’olimpo degli eroi dove a stento giunge l'eco delle timide domande dei sopravvissuti: era stato il mondo interiore del capitano a rendere possibile, per non dire necessaria, la tragedia? O forse, più semplicemente, il fato si imbuca in una delle porte da cui lo lasciamo entrare, tanto più che al Polo Sud non c’è bisogno di bussare? I diari di Scott, emendati dalla vedova e dagli amici dalle parti meno onorevoli, furono come programmato uno straziante best sellers sull’ardimento di questi cinque uomini e accesero a tal punto il mito del capitano che la madre di Oates, che aveva letto sul diario del figlio le lamentele sulla superficiale conduzione della spedizione, continuò invano a chiedere una inchiesta per appurare le responsabilità del disastro finale. 

I diari rimangono, tuttavia, una lettura di impatto. Ne sarebbe potuto venir fuori uno scritto furioso contro Dio, contro il “perfido Amundsen” che aveva invaso a tradimento il campo di gara inglese, contro la sorte. Lo scritto, invece, è pervaso di una calma piena di grazia, che assomiglia alle distese di ghiaccio sotto cui Scott e i suoi si trovano ancora sigillati, sotto le centinaia di chilometri di neve che in un secolo si sono accumulati sulla loro tenda, trascinandoli alla deriva al seguito dei movimenti del ghiaccio, fossili anche essi per i turisti degli anni duemila che giungono in Antartide a bordo di confortevoli crociere tutto compreso.

Roald Amundsen continuò a rivolgere i suoi febbrili interessi alle esplorazioni polari e legò il proprio nome anche alla conquista del polo nord. Il 18 giugno 1928 andò in soccorso dell’esploratore italiano Umberto Nobile che aveva avuto un incidente col suo dirigibile nel Mar Glaciale Artico. Nonostante i forti dissapori che erano intercorsi tra i due in passato, si imbarcò da solo su un idrovolante che non raggiunse mai Nobile e che non venne mai ritrovato. Partito per salvare un rivale, anche Amundsen morì da eroe tra i ghiacci polari e senza il conforto di una tomba su cui onorarlo. Questa volta, però, era lui ad essere arrivato secondo.



Fonti, rimandi, fanatismi, ispirazioni
http://scienza.panorama.it/Scott-Amundsen-sfida-d-altri-tempi
http://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Falcon_Scott#La_spedizione_Terra_Nova_.281910_-_1912.29
http://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Amundsen
I diari del polo di Robert Scott ed. Carte scoperte
Il volo del falco. La corsa al polo sud e il mito di Scott di J.A. Wainwright ed. Vivalda

Nessun commento:

Posta un commento