venerdì 29 luglio 2011

Tra Achab e Kirk: Il capitano Ernest Shackleton



Thoralf SØrlle era il direttore della remotissima stazione baleniera di Stromness, nella Georgia Australe. Un uomo avvezzo alla macellazione, al gelo mischiato di fumo e di grasso, ai tetri fusti in metallo per la conservazione dell’olio, alle maniere dei marinai. La persona di fronte a lui aveva la barba lunga e i capelli che gli arrivavano alle spalle, la faccia nera e i vestiti laceri. Quando lo sentì parlare, SØrlle scoppiò in lacrime. Quell’uomo aveva detto: “Mi chiamo Ernest Shackleton”.

Seicentocinquattonto giorni prima, l'uno di agosto del 1914, il capitano che portava quel nome levava l’ancora da Londra a capo della Imperiale Spedizione Antartica. Era diretto verso l’Antartide, una terra incognita, più vasta dell’Europa, per tentarne l'attraversamento da mare a mare, partendo da est.
Shackleton era un veterano dei ghiacci del sud e qualche anno prima aveva mancato di appena 80 miglia il traguardo di essere il primo uomo a raggiungere il polo.  A 3 anni da quel fallimento riuscì nell’impresa Amundsen e, dopo pochi giorni, anche Scott, che vi perse la vita. Al carattere avventuroso di Shackleton non restava che questo grande progetto dell’attraversamento del Continente bianco. Shackleton, che i suoi uomini chiamavano semplicemente il boss, partì  a capo di un equipaggio di 27 persone tra marinai, cuochi, artisti, scienziati, un clandestino poi promosso cambusiere e una muta di 69 cani da slitta. Curiosamente aveva aggregato all’equipaggio anche l'attrezzatura fotografica del regista free lance Frank Hurley, ma non una radio trasmittente, considerata all’epoca un affare di poca utilità, nonostante avesse già salvato centinaia di vite umane nei giorni del Titanic.

La nave su cui salparono si chiamava Endurance ed era uno degli ultimi capolavori dei maestri d'ascia norvegesi, costruita con tronchi che avevano già in natura le curvature necessarie all'uso navale e propiziata ponendo una moneta da una corona sotto l'alberatura.
L’Imperiale Spedizione Transantartica fallì ufficialmente a poche settimane dalla partenza, il 19 gennaio 1915, per un caso imprevedibile. Mentre viaggiava nel mare di Weddel e a sole 80 miglia dall’Antartide, l'Endurance si trovò stretta da enormi lastre di pack spinte dal vento e rimase imprigionata, a voler leggere dal dario del magazziniere di bordo: “in mezzo ai ghiacci, come una mandorla in una tavoletta di cioccolato”.
L'Endurance
Gli uomini, nei primi mesi, rimasero fiduciosi in attesa del vento che avrebbe spazzato via i blocchi ammassatosi intorno all’Endurance. Quando il primo maggio, tuttavia, iniziò l’inverno australe e la lunga notte polare, Shackleton non nutrì più speranze sulla sopravvivenza dell’imbarcazione. L'equipaggio si preparava ad affrontare sulla nave mesi lunghi e bui con temperature che scesero fino a 45 gradi sottozero. L’agonia della Endurance fu maestosa. Le foto di Hurley ce ne mostrano lo spettro fluorescente nel ghiaccio della notte artica. Il 27 ottobre 1915 la pressione del pack sullo scafo divenne insostenibile e l’Endurance si piegò, squarciata su un  lato. Gli uomini abbandonarono la nave, che si inabissò il 15 novembre.
Le correnti, nel frattempo,  avevano portato l’equipaggio alla deriva per più di mille miglia nautiche verso nord ovest, lontanissimi da terre abitate e dalla loro meta, nei cui pressi si sarebbero aggirate eventuali squadre di soccorso. Shackleton diede l’ordine di salvare dalla nave le provviste, i cani, il materiale fotografico e le tre scialuppe di salvataggio. Prigionieri su un blocco di ghiaccio di qualche chilometro quadrato, con temperature sempre sotto lo zero, i 28 sopravvissero con una dieta basata su carne di pinguino e la costante minaccia del congelamento e della cecità da neve. Per mesi  la corrente portò alla deriva Shackleton e i suoi uomini in condizioni sempre più estreme, tanto che il boss fu costretto ad ordinare l'abbattimento degli animali per risparmiare provviste e alleggerire il carico.
L'iceberg su cui si erano accampati e su cui avevano trascinato con enorme fatica le tre scialuppe, si assottigliava sempre di più e il 9 aprile 1916 Shackleton dispose di salire sulle imbarcazioni per rimettersi in mare. Saranno 5 giorni di navigazione terribili, tutti trascorsi ai remi e alle vele senza chiudere occhio. Shackleton cambierà rotta per quattro volte, costretto dalle correnti avverse. La destinazione finale fu l’isola di Elephant, un luogo remotissimo e inospitale, mai visitato dagli uomini. La malridotta Imperiale Spedizione Antartica toccava terra dopo 497 giorni. 
L’isola di Elephant si rivelò presto per quello che era: un enorme scoglio innevato,  spazzato da venti gelidi ed impetuosi. Il tratto di costa che accoglieva gli uomini non era più largo di trenta metri e profondo quindici. Tutti sapevano che il resto del mondo che ancora si ricordava di loro, li aveva dati per morti.
La partenza della James Caird
A Shackleton fu subito chiara la necessità di ripartire prima dell’arrivo dell’inverno per portare soccorsi. Si imbarcò il 24 aprile del 1916 con 5 compagni sulla scialuppa "James Caird", una nave di sette metri di lunghezza, con l’obiettivo di raggiungere la Georgia Asutrale, un'isola di circa 20 Km di lunghezza  a oltre 1.500 chilometri di distanza.
Per centrarla avevano a disposizione solo un sestante ed un cronometro, con cui il navigatore di bordo Frank Worsley provava a tracciare la rotta quando le nuvole lasciavano intravedere il sole. Potrà farlo solo per cinque volte, attraversando uno dei mari più tempestosi al mondo dove le onde si sollevano ordinariamente per oltre 7 metri, fino a raggiungere spesso i 20. Una di queste onde, di altezza tale che inizialmente Shackleton la scambiò  per una schiarita all’orizzonte, si abbattè con furia sulla Caird. Gli uomini lottarono per ore per togliere l’acqua da bordo e riportare lo scafo e se stessi alla vita. E lotteranno contro temporali e gelo fino all’8 maggio quando, con un capolavoro di perizia nautica, avvisteranno le coste della Georgia Australe. Un vento a 150Km/h proverà a sbatterli contro le scogliere, ma con una manovra ardita approderanno il 10 maggio 1916 alla Baia di re Haakon. Non era l’ultima fatica di Shackleton.

L’approdo, infatti, distava una decina di miglia in linea d’aria dalla base baleniera e il boss, lasciati i tre uomini più stanchi sulla piccola spiaggia di approdo, percorse con due compagni, per la prima volta al mondo e senza nessuna attrezzatura, la catena di monti e ghiacciai che lo separava dalla salvezza. Si presenterà così allo sbigottito SØrlle.
Messi in salvo i 3 della Baia Di Re Haakon, Shackleton organizzò ben 4 spedizioni per recuperare i superstiti dell’isola Elephant, che nel frattempo attendevano sopportando un inverno rigidissimo e tribolazioni di ogni genere. Solo ad agosto la banchisa lascerà passare il rimorchiatore cileno Yelcho con a bordo il boss.

Il 30 agosto del 1916 sull’isola Elephant era un giorno plumbeo come sempre. L’artista George Marston si trovava su un picco per disegnare il paesaggio intorno quando si accorse di un filo di fumo all’orizzonte.  “Tutti bene? Tutti salvi?” sono le parole che il boss rivolge dall’imbarcazione di soccorso ai suoi. “Tutti bene” gli rispondono gli uomini sull’isola, che contro ogni logica non avevano dubitato mai della salvezza.
Tutti bene? Tutti salvi?
A bordo del vapore Yelcho quegli uomini si lasciavano alle spalle il vasto silenzio del desolato sud  che avevano abitato per oltre due anni. Dietro di loro, nel tepore della salvezza, si scioglieva un tipo d'uomo e affiorava minaccioso un secolo che avrebbe annullato il gesto individuale per preferirgli l’organizzazione di tipo militare, sostituendo la responsabilità personale con il dovere astratto. Negli stessi mesi in cui Shackleton lottava con fede disciplinata (certamente di radice vittoriana) contro una Natura dello stesso tipo che si parò di fronte all’Islandese di Leopardi e ne prendeva a schiaffi la faccia attonita, salvando tutti i suoi uomini, stupidi generali a cui abbiamo dedicato piazze e monumenti utilizzavano noncuranti i loro uomini come quantità da mandare al massacro per conquistare col sangue un palmo di terra che avrebbero perso il giorno dopo, a un prezzo di sangue ancora maggiore.
L'avventura dell'Endurance, nel congedare un epoca, parla oggi un linguaggio, per usare un termine più insidioso dei ghiacci antartici, religioso. Il capitano che torna a riprendere i suoi uomini che lo attendono anche quando la logica imporrebbe la disperazione è la potente metafora di ogni fedele che salmodia al buon pastore, al dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, a colui che tra i 99 nomi ha quelli di chi provvede e vigilia.
La nave di Shackleton che si avvicina alla terra desolata e promette di nuovo casa ed abbracci e tabacco profumato e cibo dolce e poi di nuovo avventure, non naviga sui mari del Fato o della Necessità come quella di Ulisse. E' l’immagine commovente (come le piccole, dolcissime, inutili, luci che nell’infanzia ci ponevano accanto al letto, per non aver paura) che ognuno dei 28 uomini della spedizione e tutti noi, in fondo, vorremmo si svolgesse sotto le nostre palpebre chiuse nel momento supremo; quando nel buio che ci avvolgerà aspetteremo di vedere apparire qualcuno che eroico ed ostinato verrà a salvarci.
L'Imperiale Spedizione Antartica



Fonti, rimandi, ispirazioni e fanatismi:
Tutta l'avventura dell'Endurance (in inglese):
http://www.antarcticconnection.com/antarctic/shackleton/index.shtml
Le foto di Frank Hurley, su carta Kodak: http://www.kodak.com/US/en/corp/features/endurance/
"South" il libro di memorie, in inglese, scritto da Shackleton:
La puntata di Superquark dedicata alla spedizione: http://www.youtube.com/watch?v=iX6d8PGbUWQ

Endurance. L'incredibile viaggio di Shackleton al polo sud di Alfred Lansing ed. TEA






2 commenti:

  1. Nel mio immaginario, i trentatré superstiti dell'Isola Elefante sopportavano un tremendo inverno mentre il leggendario capitano beveva mojito in Guinea, chiedendosi ogni tanto "Cos'è che dovevo fare?"

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  2. Una catastrofe psicocosmica mi sbatte contro le mura di un resort a quattro stelle.

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